Dopo “Il ciarlatano” e “Keila la rossa” prosegue, con “Max e Flora”, la preziosa opera adelphiana di pubblicazione degli inediti di Isaac Bashevis Singer, o, più precisamente, delle opere uscite a puntate su “Forverts” il quotidiano yiddish di New York, per lo più ignote al di fuori di tale cerchia di fortunati lettori, pressoché mai raccolte in volume.
E paiono risentire di tale origine queste narrazioni, nel ritmo incalzante delle vicende, nella necessità di incatenare il lettore tramite la scansione degli episodi e dei colpi di scena, come in ogni feuilleton che si rispetti, ma anche grazie a personaggi forti ed estremamente coloriti provenienti dal mondo della delinquenza e della prostituzione, delle truffe e del furto, del teatro del palcoscenico e del mondo, ambientazioni rese con la maestria ben nota ai lettori del Singer “maggiore”.
Ambienti, gli shtetl dell’Europa centro-orientale, la Via Krochmalna di Varsavia, cancellati dalla Shoah, ma che rivivono, immortali, grazie all’arte di Singer. Personaggi sempre in bilico fra il desiderio di aggredire la vita, traendone ogni piacere possibile, anche il più abietto, e il richiamo della tradizione e della Legge (ma i lettori più accorti si rendono conto di come alle spalle di tali contraddizioni ci sia anche la predicazione eretica di Jacob Frank). Personaggi che in questa convivenza difficile, lacerante trovano il proprio spessore e, a volte, la propria redenzione, se non altro in “quella sensazione di pace che viene dal rendersi conto di aver sbagliato tutto”, come nell’epilogo folgorante di “Max e Flora” (che mi ha ricordato l'”Everyman” di Philip Roth, altro “piccolo” capolavoro).
#recensionisecondoluca