La panchina del matto

Vicino casa mia c’è un matto. Chiede l’elemosina davanti al bar, ma la chiede in modo così astruso che quasi nessuno gliela dà. Non riesci a capire che età possa avere, come per tutti i matti – il tempo per loro scorre diversamente. Forse Einstein quando ha elaborato la teoria della relatività pensava ai matti.
Oggi l’ho visto seduto al parco, seduto su una panchina. Gambe allungate e schiena appoggiata, parla il suo idioma sconosciuto guardando un punto indefinito davanti a sé. Dall’altra parte della strada arriva una ragazzina singhiozzante. Alta, bella, come tutte le adolescenti di adesso, capelli lunghissimi lucidi di piastra con le unghie dallo smalto perfetto. Piange a dirotto, inconsolabile.
Fra le tante panchine libere, si è andata a sedere proprio accanto al matto, come incurante dell’odore acre che emana. Lui non fa una piega e continua a discorrere con il suo interlocutore immaginario mentre lei continua a piangere. E stanno così, seduti accanto, ciascuno nella sua pena.
Dopo un po’ di tempo sono ancora lì. Il matto continua la giaculatoria. Lei sembra farsi cullare da quella minima ninna nanna insensata, si volta verso di lui, accenna un sorriso. Lui non se ne avvede, perso nella sua follia quieta.
Lei ha smesso di piangere, guarda nel vuoto, pensando a qualcosa che non sapremo mai. Lui la sbircia con un mezzo sorriso, e torna a parlare al nulla.
Mi squilla improvviso il telefono dalla borsa, lo tiro fuori, mi distraggo un minuto, parlando, girata verso il tramonto alla fine del viale.
Quando rivolsi lo sguardo alla panchina, la scoprii vuota

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