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La pelle che abito di Pedro Amodovar

Attenzione a uscire con la figlia di un chirurgo, specie se plastico, esperto nella ricostruzione della pelle, e portato alla sperimentazione su cavie umane.
Soprattutto poi se la ragazza ha alle spalle il suicidio della madre, ustionata in un incidente d’auto e precipitata ai suoi piedi di bambina dal balcone di casa. Con queste premesse è fatale imbattersi in chi ti cambia i connotati: pelle di suino, un altro corpo, un altro sesso e tanto veleno da sfogare.
‘La pelle che abito’, ultimo film di Pedro Almodovar, ci mette sull’avviso: la pelle in questione è assai più dura e resistente di quella umana, non soffre ustioni e punture d’insetto, ed è di tale resa estetica che forse ora signore e sultani getteranno alle ortiche siliconi e botulini e chiederanno al chirurgo solo innesti di cellule suine.
La vendetta del medico è implacabile, e porta a grottesche operazioni transessuali e a nuovi insaccati. Pazienza se la credibilità della trama perde pezzi e rilascia squame di ilarità: l’effetto tensione ricercato qua e là si smaglia e lo spettatore, spesso raccapricciato, resta più che altro perplesso. Scordatevi il don Pedro mediterraneo e sgargiante dei melodrammi tutti colori, accensioni e fuochi d’artificio passionali; dimenticate il campione del cinema pop spagnolo che ci aveva abituati a un mondo psichedelico ed esplosivo. Giunto al suo 18esimo film don Pedro ha cercato di cambiare registro e sperimentare un altro modo di raccontare l’umana pazzia. Atmosfere algide, cupe e claustrofobiche, labirinti spazio-temporali, geometriche visioni da film nordico, richiami gotici alla Fritz Lang: per certi versi questo Almodovar sembra geneticamente modificato, come fosse uscito dagli esperimenti del suo personaggio, il chirurgo Robert Legdard-Banderas, tornato alla casa del ‘padre’ da cui mancava dai tempi di “Legami”. La casa stavolta è una macedonia di melodramma, fantascienza, thriller e horror grottesco, talvolta involontariamente comico.
L’inizio del film è farraginoso, tra camere asettiche, esperimenti, conferenze scientifiche, telecamere a circuito chiuso: solo dopo si scoprirà attraverso una serie di flashback temporali chi è veramente la bellissima Vera-Elena Anaya, prodotto vivente di un amore folle e perverso. L’antico Pedro riemerge a tratti, ad esempio nella folle incursione di un uomo tigre al castello (un colpo di scena tra i tanti, con richiami ad ‘Arancia meccanica’). Ma il film è così esagerato e inverosimile che il sublime tracima sovente nel ridicolo. Sarà anche perchè lo spettatore italiano è abituato a vivere in un paese dove l’inverosimile è realtà quotidiana: siamo già circondati da suini trionfanti. Da noi la cotica vince su tutto.

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