La rilevatrice Istat mi chiede il mio ultimo stipendio. Non il lordo, mi dice. Questo è il netto, le dico, provando a non vergognarmi. Mi consola o, piuttosto, cerca di consolarsi: «Beh, certo, le responsabilità, il ruolo. E quante ore lavora?». A questo punto il tono è di chi vorrebbe vederti stramazzare mentre spingi un carrello con un due quintali di carbone in una miniera del Galles.
«Sempre e mai», rispondo laconico.
«Cioè?», comincia a spazientirsi.
«Mai perché non lavoro, esercito una funzione. Sempre perché, in sostanza, il mio impegno per la funzione che svolgo è continuo, ininterrotto. Ogni istante della giornata scrivo, leggo, penso a quello che debbo scrivere o leggere.»
«E io invece cosa debbo scrivere?» conchiude l’intervistatrice, dotata di sarcasmo.
«Scriva quaranta ore settimanali.»
«Sì. È meglio così. E del suo contratto è soddisfatto?».
Mamma mia, penso, chi mi hanno mandato. «Noi magistrati non abbiamo contratto. La carriera, lo stipendio sono disciplinati dalla legge.»
«Ah! Perché?»
«Perché amministriamo la giustizia in nome del popolo italiano e non di un singolo cittadino o di un gruppo di cittadini.»
«Sì, vabbè.». Ormai ha superato ogni tabù.
«Le sto dicendo com’è in teoria e non come accade, non raramente, nella pratica.»
«Sa, anch’io non ho un vero e proprio contratto». Ora è lei nei panni dell’intervistata. «Faccio la rilevatrice-intervistatrice, per conto dell’Istat, precariamente, a cottimo, per pochi euro a intervista. Ho quasi 40 anni e la precarietà certamente non aiuta il mio equilibrio psichico». È agevole leggerle nel pensiero men che meno sono aiutata quando incontro persone come te che vengono pagate anche solo per pensare. «Le sembra giusto?»
«A me,» dico io, «non sembra conveniente che lo Stato con i soldi dei contribuenti finanzi le Università per far laureare e specializzare giovani che poi lascia a spasso.»
«Già, ma la laurea oramai non conta più!». Siamo ai ferri corti.
«Per fare il magistrato ancora è necessaria», soggiungo io, poco convinto.
«Ma lei per il suo lavoro, o funzione che dir si voglia, usa più la laurea o il buon senso?»
Touché. «Il buon senso, ovviamente. Ma se non fossi laureato, se non avessi digerito i principi generali dell’ordinamento, del buon senso non me ne farei nulla. Anzi, forse non possiederei neanche il buon senso.»
«Ad ogni buon conto,» taglia corto lei, «Il fatto è che esiste una generazione che è assunta. La sua. E tutte quelle che si sono succedute sono precarie.»
Dentro me all’improvviso nasce una specie di soggezione. Una cautela, ecco, sì. E se tra cinque o dieci anni, penso, i miei figli dovessero trovarsi nella stessa situazione di precarietà?
«Ha mai letto Isaac Singer?», le chiedo titubante.
«So che è un premio Nobel che scriveva in Yiddish»
«Si, certo. Mi riferivo, in particolare, ai romanzi scritti dopo la seconda guerra mondiale.»
«Sulla Shoah?», domanda perplessa.
«Non proprio. Sugli ebrei che sono fuggiti negli Stati Uniti e che hanno cominciato a vivere secondo i costumi liberali. Dopo venti, a volte trenta anni dalla fine della guerra, alcuni di questi ebrei si sono uccisi.»
«Assurdo! Perché?». È sinceramente stupita.
«Per la vergogna. Si vergognavano di essere scampati all’olocausto. Se ne facevano una colpa. I nazisti hanno ammazzato sei milioni di ebrei e altrettanti ne hanno colpevolizzato per il fatto di essere ancora vivi.»
«Interessante. Ma cosa c’entra con la precarietà?». Lo dice dimostrando però di avere capito benissimo.
«C’entra il fatto che io mi debba vergognare di fronte a lei, come se fossi un privilegiato. Quando invece mi è soltanto capitato di nascere qualche anno prima. Allora i concorsi pubblici si facevano. Il posto fisso non era un miraggio e il contratto a tempo indeterminato la regola. Io mi vergogno, ma non sono un nazista, sono un sopravissuto.»
Resta in silenzio. Poi si riscuote. Mi guarda. Sorride. «Ha ragione, ma, mi dispiace, non ho le caselle dove inserire queste considerazioni.»
Mi alzo, le porgo la mano. «Già, sono considerazioni non previste, né prevedibili, da chi ha redatto gli appositi moduli di rilevazione.»