L’altro giorno mi è caduta la scatola dei bottoni. La stavo togliendo dal mobile dove dimora da anni quando mi è sfuggita di mano, come animata da vita propria. Alcune centinaia di bottoni si sono rovesciati sul pavimento tra il mobile e il divano. Piccola imprecazione. Ho cominciato a raccoglierli dapprima nervosa e infastidita. I più piccoli si erano già nascosti sotto il divano, quelli dai colori tenui si mimetizzavano sul parquet. I più grossi mi guardavano beffardi perché, smesso di rotolare, comunque rimanevano immobili ben visibili e aspettavano, che io li raggiungessi, piegando gambe e schiena.
I miei gesti erano stizzosi e secchi. Poi, piano piano, ho cominciato non solo a cercarli qui e là sul pavimento ma a guardarli meglio e a riconoscerli. La piccola marea di pianetini colorati raccontava la storia della mia famiglia di almeno un paio di generazioni. C’erano i bei bottoni grossi del cardigan della nonna Manuela, mia madre, quelli dei pantaloni da uomo di almeno due nonni, Elio e Mario. Un miliardo di piccoli bottoncini bianchi di un tempo in cui le camicie erano roba fina con colli, bottoni e polsini di ricambio.
Poi quelli a trenino-orsetto-casette dei golfini dei bambini, oggi adulti. Ma anche i bottoni di metallo con la stella alpina dei giacchini tirolesi. E quelli costosi delle belle giacche smesse tanto tempo fa. Senza dimenticare un manipolo staccato dalla nonna Anna da alcuni abiti passati di misura e da destinare ad altri che mai più confezionò.
Naturalmente ci sono poi quelli di scorta dei miei cappotti di ragazzina, e alcuni di pelle intrecciata di chissà quale giaccone sportivo. Altri apparentemente simili, una volta accostati rivelano misure diverse, diventando così inutili.
Molti i colori con una prevalenza di toni del grigio e marrone, qualche rosso, qualcuno di metallo, molta madreperla. Quelli blu con l’àncora, inutili anche quelli, tanto diversi dai bottoni del giaccone da marinaio di mio figlio.
Una volta raccolti e rimessi nella loro scatola dopo una lunga occhiata di commiato, ho chiuso il coperchio sul piccolo universo, sapendo che i miei figli al prossimo giro riconosceranno ben poco delle tante storie conservate dall’esercito disordinato di quei profughi. (sopravvissuti?)
L’era del vestiario a basso costo, delle grandi catene internazionali con le loro offerte usa e getta, che se ne fa dei bottoni preziosi? Le nonne non li riciclano più, non staccano e riattaccano, non sostituiscono i brutti coi belli; le neo mamme comprano capi nuovi e raramente sferruzzano. Noi generazione del dopoguerra siamo il traghetto tra due epoche di bottoni: quelli da conservare e quelli da ignorare. E va bene così.