Dunque, amico, c’era quella scatola luccicante, no? Perfetta per acquattarmi, modellando il mio corpo imperfetto alla sua perfezione scatolosa. Luccicava, dico, invitante e avvolgente. Non era la solita scatola di cartone, testata con unghie e denti per saggiarne la cedevolezza dimensionale. La sua superficie era liscia, durissima, rifletteva la mia impenetrabilità, pari forse alla sua. Invece, non ricordo come, penetrai il suo mistero e mi ritrovai in lei, pervaso di s(cat)olitudine assoluta. Il bello di una scatola è che ti garantisce l’invisibilità, lo sanno tutti, anche se manca il coperchio. Però lì il coperchio c’era e c’era pure una assurda scatolina all’interno, che mi fissava, minacciosa e beffarda (o forse rifletteva il mio sguardo? Ora non rammento più).
Ascolta, amico, non voler sapere cosa è stato di me. Non sollevare il coperchio. La tua curiosità potrebbe darmi morte o vita. Nell’indeterminatezza ho sospeso i miei giorni. Io sono vivo se mi immagini vivo. Io sono morto, se mi immagini tale. Io sono entrambe le cose, per sempre, se non guarderai dentro la scatola. Io sono l’essere che travalica lo stato di immanenza. Io sono il mistero che ti guarda. Io sono un gatto. Il gatto di Schrödinger.