La scrivania di Emilio

A quel tempo, siamo all’inizio degli anni sessanta, le famiglie numerose erano già passate di moda. In giro si vedevano soprattutto giovani famiglie che avevano programmato un paio di figli, possibilmente un maschio e una femmina, e non si sa come erano riusciti, pur nel rispetto dei dettami di Santa Madre Chiesa, a centrare lo scopo.

La famiglia di Emilio era strana, perché non era una, ma due.

La prima famiglia era in linea con lo spirito di vent’anni prima: genitori giovani, la mamma quasi una bambina, e cinque ragazzi biondi e magri, cresciuti durante la guerra.

La seconda invece si era inserita nella fresca atmosfera del boom economico, pur se con alcune varianti. I genitori erano gli stessi ma alquanto invecchiati. Il figlio del benessere era uno solo, maschio: Emilio.

La distanza abissale che separava Emilio dai fratelli rese subito la sua esistenza una specie di scherzo della natura. Vantaggi, oggettivamente pochi. Svantaggi, una marea, di cui Emilio si sarebbe reso conto lentamente, nel corso del tempo.

Tra i vantaggi, l’impossibilità materiale da parte dei genitori di attuare il riciclo di scarpe, cappotti, vestiti appartenuti ai fratelli, anche perché in tempo di guerra gli indumenti si consumavano fino all’osso.

Ma ciò non valeva certo per i mobili. La casa di Emilio conteneva più o meno gli stessi arredi da trent’anni e l’acquisto di un tavolo moderno era un fatto straordinario, epocale, come l’introduzione di rivoluzionari elettrodomestici tipo una televisione o un frigorifero.

Così, quando Emilio conquistò una camera tutta per sé, si vide assegnare una scrivania al termine del suo ciclo di appartenenza. Un mobile di legno decisamente non bello ma solido e funzionale, dalle linee postfasciste rivelate in alcuni motivi tondeggianti e da cornicette nere allora in voga. Un cassetto lungo centrale, con chiave, quattro cassetti liberi piuttosto capienti.

Il cassetto centrale della sospirata scrivania era però chiuso. Si scoprì dopo alcuni anni che conteneva la collezione, non disprezzabile, di pacchetti di sigarette appartenuta al fratello Dissoluto, dimenticata e abbandonata al suo destino. Nei cassetti liberi trovò posto in poco tempo una sarabanda di oggetti disparati, preziosi e futili, accumulati da Emilio. Distintivi e tessere varie, in particolare quelli di Governatore del Club di Topolino e della Lega Navale, un mazzo di carte napoletane consunto, un rotolo di scotch, penne e matite di vario genere, resti di una macchinetta Policar, alcuni modelli di automobiline Mercury o Corgi Toys, boccettine di vernice per tinteggiare le automobiline stesse, relativi pennelli, figurine Panini con prevalenza AS Roma, francobolli, tubetti di colla rinsecchiti, biglie di vetro, materiale elettrico di difficile decifrabilità, un tappo di sughero, una fettuccia metrica gialla, da sarto, gessi multicolori, palline in plastica con dentro effigi di famosi ciclisti, sabbia e trucioli di matite misti a grafite e gesso, il tutto ridotto in polvere a formare un sottofondo omogeneo molto, ma molto sudicio.

Un altro cassetto era dedicato alla posta: lettere e cartoline da tutta Italia, con rare eccezioni estere. Cazzeggiamenti estivi e timidissimi tentativi di approccio, distinguibili questi ultimi dai colori pastello delle buste e da calligrafie di sconcertante ordine e perfezione.

Ma il vero spettacolo era l’ampio piano di lavoro: interamente coperto da una spessa lastra di vetro, da sempre adibita a proteggere le cartoline più belle di tutta la famiglia. Spiagge esotiche con strani bungalow al posto degli ombrelloni. Aerei in volo, piazze italiane in bianco e nero, montagne innevate, cascate travolgenti sulle quali spicca una piccola bandiera rossocrociata. E il pezzo più pregiato: la tragica doppia curva di Dealey Plaza, con la descrizione schematica dell’assassinio del Presidente Kennedy, versione Commissione Warren, inviata da mio fratello, direttamente da Dallas.

Come dire che mentre noi in Italia ci mandavamo “Cordiali saluti a lei e famiglia” con la foto balneare di Marina di Grosseto, gli americani già facevano marketing e commercio sulle tragedie della Storia.

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