La signora discinta

Sono più di sessant’anni che mi accompagna.
La signora discinta, a conti fatti, è stata l’unica, fedele compagna della mia vita. Mai uno screzio, mai un rimprovero, se non quel sottile senso di colpa che mi comunicano, inevitabilmente, i suoi occhi socchiusi.
Fa finta di sonnecchiare, ma io lo so che sta pensando “ Guardami pure, io non posso farci niente. Devo dormire, mi pagano per questo qui all’Accademia. Dormire, sognare, dimenticare di essere nuda. Morire, forse. Di vergogna, di freddo, qui nel salone pieno di pittrici ma anche di uomini. Pittori, certo. Ma io lo vedo, che dopo aver studiato la pienezza dei miei muscoli morbidi, le mie cosce potenti di donna energica ma docile, esitano, affrontano quasi tremando il ciuffo nero che, beffardo, tenta di nascondersi con noncuranza, sapendo di essere sempre e comunque involontario protagonista del quadro, di queste ore immobili, della vita.”
Mia madre dipinse questa tela nel ’32, a diciassette anni. La scuola di via Ripetta era densa di talenti, allora, ragazzi che sognavano la grande terrazza di via Cavour, dove Mario Mafai e Antonietta Raphael vivevano, liberi come vivono gli artisti, e Giuseppe Ungaretti rimaneva estasiato dalla veduta incomparabile dei Fori, di Roma tutta, incendiata dai colori di Scipione, di Cagli, e poi di Guttuso, Afro, Vespignani e tanti altri giovani leoni.
Il sogno di mia madre invece finì prestissimo. Scelse la famiglia, il matrimonio, i figli. Cinque in cinque anni, mentre la follia distruggeva l’Italia.
Il quadro rimase per tanti anni occultato tra i segreti di famiglia. Troppo forte, troppo vero, troppo pericoloso per cinque adolescenti che dovevano crescere sani, nelle regole di Santa Madre Chiesa. Chiesa Romana e Scuola Romana non potevano conciliarsi, secondo il capofamiglia d’altri tempi.
E io adesso, il sesto figlio, continuo a guardarti, cara signora discinta. Sei una presenza ormai solo rassicurante, fedele. I turbamenti dell’infanzia sono un ricordo lontano, i seni opulenti, le gambe chiuse ma non abbastanza, il ciuffo nero beffardo.
Ti conosco da sessant’anni. E non saprò mai il tuo nome

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