La solitudine del giudice

Il giudice deve possedere due cose: i simboli e la solitudine.
I simboli li trova belli e pronti. Da tremila anni sono sempre gli stessi: la toga, lo scranno, l’auctoritas.
Quando mia figlia, alcuni anni fa, è venuta a vedere una mia udienza è rimasta colpita dal fatto che al mio ingresso nell’aula tutti si fossero alzati in piedi. “Che carino”, ha detto. Io le ho spiegato che gli avvocati e i ricorrenti non si sono alzati in piedi per me – alcuni avvocati festeggerebbero con il miglior champagne se io morissi- ma per la Dea che è entrata insieme a me. La Giustizia.
Per i greci e i romani, soprattutto per questi ultimi, la giustizia non era questione da affidare agli uomini, bensì all’omonima dea. All’uomo non restava altro che fare il sacerdote del suo rito: il processo.
La solitudine invece il giudice non la trova bella e pronta. La deve imparare, esercitare, assorbire.
Il giudice è solo quando decide. È solo con la sua convinzione, che deve essere consapevole, fondata su presupposti giuridici solidi (che è poi uno solo: la Legge) e su motivazioni di fatto inequivocabili.
È solo quando scrive la sentenza ed è solo, ma soprattutto deve esserlo, quando la pubblica.
Il giudice, come la carità, non invidia, non si vanta, non cerca il proprio interesse, non si adira, non si compiace della verità.
La verità processuale, naturalmente. Il giudice non deve andare a raccontare chi ha condannato o chi ha assolto.
Se su un giornale esce una notizia che riguarda una sua sentenza non la deve commentare. Inoltre, nel caso in cui ad una sua sentenza non venga dato rilievo, il giudice non deve adirarsi ne cercare con altri mezzi di darle il rilievo che non ha avuto.
Il giudice è solo anche rispetto all’opinione pubblica. Gli capiterà, infatti, di condannare una persona amata da tutti, e – perchè no?- anche da lui, o di assolvere una persona odiata da tutti, lui compreso.
Il giudice è solo con i propri errori. Gli martellano la testa continuamente, se non ha la fortuna che un giudice di appello li ripari.
Il giudice è solo al lavoro. Non può allacciare rapporti di amicizia con avvocati o con persone che abbiamo avuto a che fare con lui.  Se un avvocato conosce per motivi di lavoro un idraulico o un medico potrà poi avvalersi dei loro servigi. Il giudice non può farlo, mai. Inficerebbe la sua libertà e serenità di giudizio. Anche a posteriori, dopo che il giudizio è stato reso.
Il giudice è solo e deve essere solo sempre, in tutti i rapporti della vita quotidiana.
Quando fa la fila alla posta non deve fare il giudice, non deve mettersi a sgridare chi gli passa davanti, perché potrebbe essere una persona che cerca di attaccare briga apposta per poi raccontare quanto è cafone quel giudice.
Deve avere pochi amici fidati che sanno che giammai gli devono domandare favori.
Anche se la vita ha spesso riservato a ciascuno di noi altri esempi, vi assicuro che la maggior parte dei giudici che io conosco vive in solitudine. Una solitudine vera senza nemmeno una Dea con cui parlare.

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