Pubblichiamo il racconto di Nicoletta Billi, il migliore del corso di scrittura marzo 2022 della Scuola di Scrittura di Valeria Viganò, scrittrice ed editor in chief de La Rivista Intelligente. Complimenti sinceri da parte di tutta la redazione.
“…I will take with me the emptiness of my hands /What you do not have you find everywhere “W. S. Merwin
Sono triste, ho freddo, detesto questa casa sontuosa, detesto gli inglesi, li detesto tutti, vorrei essere a casa mia, a scuola –mai avrei immaginato di sentire la mancanza di quell’aula cupa- vorrei abbracciare il mio papà malato, lontano e solo. Non trovo le pasticche per il mal di testa, non trovo i sonniferi, non sono più dove li avevo nascosti, dove sono? Mi manca tutto. Domattina nascerà mio fratello. La mamma è in clinica, il parto cesareo è annunciato per le 9.
Lui mi dice di dormire nel lettone perché si sente solo. Mi ha insegnato un gioco fin da quando ero piccola, i grattini. Mille lire se mi fai i grattini, cinquecento lire se ti fai fare i grattini. Stasera no, non mi va. “Dai vieni qui, vieni fra mie braccia tesoro, più vicino, fammi i grattini qui, piano, più piano, fammi vedere questo petto nuovo nuovo dai, fammelo toccare se no divento pazzo, è mio, tu sei mia, dai solo poco, non vergognarti sono quasi tuo padre, senti come diventa duro questo bottoncino, non c’è nulla di male, no non ti faccio male, è peccato solo per gli altri, non possono capire, nessuno lo saprà mai, è il nostro segreto, tu sei mia , sei la mia bambina adorata, sei la mia creatura, ti insegno io quello che poi farai con i ragazzi, ti ho cresciuta, sei la mia figlietta meravigliosa, lo sai il bene che ti voglio un bene speciale, assoluto, nessuno ti potrà mai amare più di me, non muoverti, fammi toccare qui, ancora più giù, ecco qui, senti com’è grande, guarda, no non ti faccio male, faccio piano, senti com’è bello, ti piace , dimmi che ti piace, non scappare, resta qui amore, bambina mia. “ Schifo, apnea, piacere. Un terrore sconosciuto, assoluto, paralizzante, corpo pelle cervello annientati, non sono più niente. La sua mano sulla bocca ferma il grido di dolore, amore mio, bambina mia. E’ il nostro segreto, per sempre. Giura.
Il cielo è nero, piove, andiamo in clinica a conoscere il nuovo bambino, molto piccolo dicono, ma lui e la mamma stanno bene, finalmente possiamo tornare a casa.
Tutto è in fiamme. Non ci sono le parole per dirlo, non sono nei libri, dirlo a chi?
Non sono scappata, non ho urlato, l’ho permesso “è colpa tua bimba malandrina, sei troppo bella, sei troppo tenera, mi hai fregato, vieni qui”. E’ colpa mia.
Piango, sono cattiva, la vita è velenosa, solitaria, mi nascondo. Le chiese sono il nascondiglio preferito, non ci sarà mai nessuno che conosco, la penombra è un balsamo. Una messa è appena iniziata, il sacerdote, altissimo con la tonaca troppo corta e i sandali dei francescani, con voce ferma parla di Perdono, annuncia che persino il più efferato, ignobile, il più crudele e schifoso dei crimini, sarà perdonato sempre e comunque dall’infinita bontà del Signore, nostro Padre, che in cielo risiede e tutti ama. Parole come miele, un segno del cielo. Domenica, in ginocchio con voce incerta nel confessionale: ho paura, a casa succedono cose brutte, io non voglio, la mamma mi ucciderà, papà morirà, vivo nel terrore, mi odio, odio tutti, sto morendo, mi aiuti, la prego.
Dieci Ave Maria, dieci Padre Nostro, non farlo mai più. Amen.
L’incubo ha lenzuola di lino e nessuna catena “non fare la stronza, parla più piano, è l’ultima volta, sto impazzendo, ti prego apri”. Nella stanza accanto si sente piangere il bambino. La mamma dorme, dorme sempre con i tappi nelle orecchie.
Una via di fuga, la più veloce, non è coraggio è disperazione, domani non ci sarà nessuno, domani è perfetto: intontita dai sonniferi in piedi sul davanzale sono pronta ma, inciampo sullo spigolo e cado malamente sul balcone, maledizione. Tre vasi in pezzi, i limoni indenni, molto sangue, solo sette punti di sutura, una fortuna, la cicatrice col tempo andrà via dice l’infermiere soddisfatto. Non è vero.
Malvagia, bugiarda, ignorante, egoista, malata, una pazza, la mamma mi odia e non lo nasconde mai, il nonno insiste per il collegio, lui mi regala un portachiavi d’oro. Papà è sempre malato, mi aspetta a casa nostra, racconta che a volte riesce a scendere in giardino, il glicine è magnifico quest’anno, vieni presto.
Nella sequenza degli incontri al buio, avvolta in un grande mantello piumato sfreccio al galoppo sul cavallo più veloce che c’è, sparisco laggiù, lontanissimo, per il bene di tutti. In mano ho una lancia di fuoco nessuno si avvicini.
Conosco l’inferno: ho vomitato per anni, mangiato nulla per mesi, sperimentato ogni colica biliare, renale, epatica, ogni vergogna, ogni sanguinamento, ogni pianto quotidiano, ogni pasticca di ultima generazione e tutti gli stupefacenti a portata di mano. Il cavallo è scappato, il mantello è lacero, sudicio come me.
Ho bisogno di aiuto.
Seduta scomposta in uno studio medico sulle alture della città, parole stropicciate e veloci rotolano, scricchiolano sulla scrivania inondata dal sole, sputo fiele dolore rabbia, sputo tutte le mie colpe. E’ la prima volta. Piegata in due l’indicibile è stato detto e sono viva. L’anziano psicoanalista – occhi bellissimi, voce profonda – porge un fazzoletto lindo e ben stirato. “Un adulto e una ragazzina non hanno pari conoscenza della vita, mi dispiace per lei, mi dispiace davvero signora, un abuso sessuale su un minorenne è dramma quotidiano purtroppo, soprattutto nelle famiglie, senza distinzioni di ceto istruzione o reddito, succede ovunque, si asciughi le lacrime, non abbia paura, se è d’accordo ci vediamo lunedì”. Uscendo in strada la luce è forte, nessuna nuvola in cielo, un vento leggero avvolge e spettina tutti i pensieri, è quasi primavera.
Seminale antidoto al veleno del segreto, le parole per dirlo hanno impiegato anni per trovare una voce, inesorabili come calamità naturali, semplici sofferte poche parole distruggono ogni finzione, sbriciolano costrutti, famiglia, relazioni, amici, amori, tutti gli amori in pezzi. Fumo e macerie fuori dalla prigione; affamata smarrita libera all’alba di un tempo nuovo. La terapia con il dottore dagli occhi blu è la prima di molte altre, ortodosse e non, la malta per la ricostruzione sembra non bastare mai; la mia bambina è appena nata, voglio poterle sorridere quando mi guarderà negli occhi.
Nel tempo della ricostruzione il suicidio non è più il primo pensiero al mattino, le coliche solo una o due l’anno “il corpo non dimentica”, gli attacchi di panico acuti ma del tutto sporadici “poteva andarle molto peggio, la pressione emotiva poteva schiacciarla irreparabilmente”, la depressione domata con collaudati rimedi: ingoiare con costanza le pillole blu la mattina e quelle bianche la sera, guai a smettere.
Smetto invece, aspro sapore è consegnare alla chimica la sola cura della vita, scordo le pillole in viaggio e inaspettate, felici sorprese placano i demoni con una sola carezza. Creature audaci, meravigliose, hanno pozioni magiche, conoscono antichi canti e nuovissimi rimedi, sanno da dove vengo, mi hanno riconosciuta. Madri, sorelle, donne folli coraggiose sagge mi accolgono nel loro grembo e nutrono con il loro latte, sapore dolce e sconosciuto, asciugano le lacrime, rammendano le ferite con sapienza di veterane e ridono, ascoltano. Non ho avuto una madre, ne ho trovate milioni. Senza di loro non potrei essere qui adesso.
Insaziabile onnivoro appassionato zelo di principiante, imparo linguaggi sconosciuti, imparo il segreto del respiro – accorgersene, celebrarlo – del presente – solo unico certo terreno – il portale del perdono – la più potente delle forze cosmiche svelate agli umani. Scritto, agito, ripetuto dai sapienti in ogni tempo, in ogni lingua e luogo, come sott’acqua quando stai per affogare, il perdono è l’ossigeno divino, strumento sacro che restituisce il respiro e salva l’anima dagli abissi della paura.
Immutabile quel che è stato, inconfutabile che non è più. Quello che resta è questione alchemica di volontà e fortuna.
Respira, ringrazia, perdona, perdonati. Si.
Dismessi i rituali masturbatori di vergogne rancori e rimpianti esausti, diradato il fumo, la pelle è sottile, le cicatrici tutte visibili ma gli arti rispondono, lo sguardo è limpido, il passo velocissimo; in un corpo già adulto, ignorante, impaziente, curioso, eccomi, sono viva. Imparo che non finisce mai, non si arriva a un compimento, non c’è fine; sbaglio, riprovo, lavoro, sbaglio, riesco, riprovo, accudisco con tenerezza materna un’allegria modesta e quotidiana, l’allegria dei sopravvissuti.
Mio fratello lavora in una missione laica in Africa, la mamma è andata via da poco, papà da anni. I capelli sono raccolti in una treccia bianca che i bambini adorano scompigliare per giocare al parrucchiere, all’anagrafe l’età è quella dei veterani, la pelle ha macchie scure, il cuore quasi più. In giardino il glicine intoccato dalle tempeste sparge un profumo intenso, come pioggia di farfalle viola i petali svolazzano leggeri nell’aria tiepida della sera. Si ripetono meraviglie, è tornata primavera. Aspetto i bambini al ritorno da scuola, sul tavolo la merenda preferita,
sotto il tavolo la saponata per fare le bolle, viziarli è un privilegio di cui godo senza nessuna vergogna.
Laggiù: un criminale a piede libero, un predatore, un ladro, una carogna – si racconta vittima di una passione cieca alla quale non ha saputo resistere “perché l’uomo è uomo, mi capisci? -. Se le parole per dirlo fossero state pronunciabili sarebbe andato in prigione per anni con sentenza d’infamia, lapidato da sprezzo universale, sanguinante e in catene. E allora la voce sarebbe roca, chiederebbe pietà gridando
Perdonami bambina mia, perdonami, ti ho rubato giovinezza e libertà, sono stato feroce e crudele, perdonami ti prego.
Nicoletta Billi