Tirando giù dallo scaffale più in alto della libreria e aprendo per la prima volta questa copia del libro “Settimo non rubare”, uscito nel 1953, che raccoglie gli acuti, brillantissimi articoli di Ernesto Rossi sul Mondo – interessanti e divertenti persino per me, che ho una spiccata antipatia per l’argomento economico – a partire dal ’48 e leggendo avidamente qua e là, sono rimasta letteralmente affascinata.
Come preannuncia il titolo, nel grande e complicatissimo gioco politico-economico del dopoguerra all’ombra del piano Marshall l’Italia si distingueva già per le sue poco onorevoli specialità: capitalismo e familismo amorali, sporchi intrighi, monopoli, conflitti di interesse, mazzette, scandali “furbizia” diffusa, mafia e mafiosità varie ecc., tanto che certi articoli sembrano scritti adesso. Ma l’immersione in quelle vecchie pagine infragilite ha significato molto di più per me, forte ed emozionante.
In una sorta di vertiginoso viaggio a ritroso nel tempo in due tappe, una realmente vissuta e l’altra quasi immaginaria (a causa della mia tenerissima età), ho riscoperto un volto del mio babbo sbiadito e inghiottito nelle spire del tempo.
Negli anni della contestazione io non contestavo, non potevo contestare mio padre, e anzi intrattenevo con lui un fitto e appassionato dialogo, perché non solo lo amavo, ma avevo grande stima della sua intelligenza e cultura, per non parlare della sua esperienza. Ma riconosco che ero troppo scalpitante e distratta dalle sirene dell’immaginazione rivoluzionaria (l’immaginazione al potere!), non violenta, per carità, e di stampo più poetico che politico, per darmi davvero la pena di seguire fino in fondo il filo dei suoi ragionamenti.
E tuttavia, da animali dialettici quali eravamo, ingaggiavamo tenzoni fino a notte fonda, per poi crollare sfiniti senza mai arrivare alla radice delle rispettive ragioni. Era tutta colpa sua, della sua pedagogia filosofica iniziata quando a tre anni, dondolandomi sulle sue ginocchia mentre mi tirava le treccine, mi faceva giocare ai sillogismi aristotelici (in confezione baby, eppure rigorosi)?
No, era anche colpa mia, o se volete del mio ego cocciuto e straripante al finire dell’adolescenza, e ohibò dei geni paterni che avevo irresponsabilmente ereditato. Sia come sia, a quel tempo, finché ne ho avuto l’occasione, non sono stata capace di mettermi ogni tanto “tra parentesi”, chiudere il mio becco saputello e stare lì ad ascoltarlo, semplicemente. Quanto rimpiango di non averlo fatto!

Oggi, solo oggi, rimbalzata di rimpianto in rimpianto grazie a quel vecchio libro, ho visto riaffiorare di colpo dietro quei ricordi – veri, falsi, ricostruiti – il viso smagrito e tormentato di Gianfranco reduce dalla prigionia mentre ricuce faticosamente i lembi della sua vita interrotta, disorientato e lasciato solo con i suoi fantasmi terrificanti (il premio riservato agli ex internati), mentre si affanna tra le macerie ancora fumanti per portare il becchime alla sua famigliola (ospite della madre) ed emanciparsi, si laurea in giurisprudenza, studia ancora (master alla Bocconi), ricerca per sé un’attività imprenditoriale moderna, di respiro internazionale, con cui contribuire fattivamente, con tutte le sue forze, allo sforzo di ricostruire il suo paese, svecchiandolo, sprovincializzandolo e innovandolo profondamente (Italietta fascista, addio per sempre!). Ricostruzione, materiale e morale, eral’imperativo.
Classe 1920, come si usa dire, al suo ritorno in patria il babbo era un ragazzo venticinquenne a cui la guerra e i lager avevano rubato tutta la prima gioventù (cinque anni) e il fascismo i vent’anni precedenti di formazione civile; ora si trovava di fronte al compito immane di decifrare e mettere a fuoco il complesso meccanismo planetario che gli si squadernava improvvisamente davanti.
Qual era il suo posto, il suo ruolo? Tutto quello che aveva conosciuto e interiorizzato indelebilmente da giovane adulto era l’orrore per il fascismo e ogni forma di dittatura. E dall’altra parte, sviluppato fin dall’infanzia, l’amore esigente (unica tirannia ammessa!) per i valori dell’illuminismo: libertà, uguaglianza, fraternità, nessuno escluso.
C’erano anche, da qualche parte, gli echi del socialismo liberale anglosassone trasmessi in qualche modo persino nel Ventennio, libri e film e canzoni d’Oltremanica e Oltreoceano – il jazz! – e gli antichi richiami, forti e chiari, della cultura greca, del diritto romano e chissà cos’altro. Tutto miscelato e confuso in un gran caos, era arrivato il momento di rimboccarsi le maniche!
A fornirgli alcuni degli attrezzi adatti per interpretare l’Italia di quegli anni – e fare ordine, e conciliare teoria e prassi nel contesto- saranno proprio le voci di Ernesto Rossi, e Pannunzio, Calamandrei, Leo Valiani, Il Mondo, il giornale del Partito Radicale (mi sembra di sentire risuonare i loro nomi, di rivedere il foglio dei Radicali, formato gigante)…
Fonti di informazione e di ispirazione importanti, ma niente affatto esclusive, per il suo pensiero e la sua azione, che erano e restarono sempre mobili e critici, personali e fieramente indipendenti: di maestri, di padroni, di manipolatori, di incantatori sfacciati o velati, ne aveva avuto abbastanza, e non ne avrebbe avuti mai più.
Così, ecco, lo vedo o lo immagino, come attraverso lo spiraglio della porta, il mio giovane babbo, nella stanza in penombra, che si morde il polso seduto alla sua scrivania alla luce di una lampada verde,circondato da montagne di carte, giornali e libri italiani e stranieri (conosceva bene il francese, l’inglese, lo spagnolo e, sì, fatalmente, anche un po’ il tedesco), mentre legge, pensa, studia, aggrotta le sopracciglia, sospira, si stira, si alza, mette un disco…
“Someday, over the rainbow”, forse. E il cuore mi si scioglie.
… troverò le mie parole; intanto grazie, Margherita: bellissimo.
Che bel ricordo e che fortuna che hai avuto ad avere un babbo così!
Lo hai scritto molto bene, piacevolissimo senza inutili sdolcinature!
Complimenti!