«Noi fummo i gattopardi, i leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene; e tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra.» Lei sì, era il sale della terra.
Del libro di Tomasi di Lampedusa resta il ritratto a grandezza naturale del Principe di Salina; del film di Visconti, l’apparizione di Angelica/Claudia Cardinale, che crea una zona liberata dalla Storia, dove si celebra il rito primario della seduzione: la più pura e temibile, quella che si affaccia appena alla consapevolezza. La mia generazione ne trasse insegnamento, una frustata che ci allontanò da madri troppo cotonate, strizzate in tailleur geometrici ed esistenze da animali domestici.
Col vestito candido e l’acconciatura fiorita, o l’abito dimesso e gualcito dagli abbracci di Tancredi, Angelica/Claudia era innanzi tutto corpo trionfante. Una donna albicocca colta nel punto esatto della maturazione.
Claudia Cardinale era muta e complessa. Da bambina parlava poco e giocava coi maschi, e a ciò, in un’intervista, attribuiva la sua specialissima voce rasposa. Divenne diva per caso, madre per violenza, si dice. Venne rapita dalla Tunisia perché bella, e solo per caso le toccò in sorte il trionfo: il concorso di bellezza, cui non aveva scelto di partecipare, prevedeva l’apparizione al Festival di Venezia…
Dal mercato delle schiave di lusso uscì con un padrone potente, che ne decise ogni attimo e ogni pensiero. Partorì a Londra, in segreto, un figlio voluto, il cui prezzo fu negarlo presentandolo come suo fratello. In quegli anni di corpi al mercato, di trionfo dell’acquiescenza, fu arrendevole dentro e fuori dallo schermo.
Il suo vero pigmalione non fu però Cristaldi, ma Visconti, perché la spinse ad avere fiducia nel proprio corpo e nelle proprie passioni. Quando Claudia baciava Delon, il Maestro li spingeva a lasciarsi travolgere. «Voleva vedere la lingua», racconta lei.
I sogni degli uomini si perdevano dietro al mistero del suo sguardo, che raccontava una storia a più strati. I fotografi la ritraevano sempre nell’attimo dell’occhiata in tralice, carica di promesse sontuose. Ma c’era di più: dai suoi occhi tracimava una narrazione ammutolita, privata della voce roca che la rendeva particolare. Senza quello sguardo narrativo, il suo viso sarebbe stato quasi sovrapponibile ai bronci della Bardot.
Fu Fellini, infine, a renderle la voce, e con essa l’identità. È stata forse l’unica donna che il regista non abbia trasformato in una proiezione dei propri sogni e conflitti, limitandosi a contemplarla.
«Quanto sei bella, mi metti in soggezione, mi fai battere il cuore come un collegiale. Che rispetto vero, profondo, comunichi.» fa dire al suo alter ego Mastroianni. Da allora, e per sempre, la Venere Mediterranea dai molteplici idiomi sorse dalle acque. Incontrò i registi più grandi senza piegarsi mai del tutto, e scelse di seguirne, nella vita, uno più piccolo.
A noi donne nate a metà degli anni ’50, soffiò nelle orecchie un suggerimento di femminilità antica e regale, di cui per tutta la vita saremo grate. Perché le ragazze indomite che volevano essere lei, alla fine hanno trovato se stesse.
Auguri, Claudia venuta dal mare.