Non sono un sociologo. Né uno psicologo. Sono già sufficientemente confuso di mio. Possiedo organi genitali maschili, con tutto ciò che di sociale e psicologico questo comporta. Non so molto altro. Pensavo di saperne di più.
Lo credevo, finché qualcuno non si è messo a contare il numero di donne assassinate in Italia, solo quest’anno, da chi possiede organi genitali come i miei.
Novantanove. Un numero inconcepibile. Mi avrebbe sconvolto anche cinquanta, o venti, per la verità mi sconvolge anche una sola. Ma questa dimensione esula dal caso, dal raptus, dalla follia d’amore di un romanzo d’appendice o del vicino di casa.
Novantanove atti mostruosi, uno ogni tre giorni, commessi da esseri a me sessualmente affini, che negano doppiamente la vita assassinando chi ne detiene il segreto.
Cinquemila anni di servaggio imposto da chi alla superiorità intellettuale sa opporre solo quella muscolare, si sono stravolti negli ultimi cinquanta. Il pene non è pronto. La fine del suo dominio confonde, disorienta. Per alcuni deve essere traumatica, incomprensibile. Al punto che, per novantanove volte in un anno, ha riarmato di clava il cavernicolo dal quale ancora non ci siamo evoluti. Il meme va sempre più veloce del gene: ancor più in un Paese in cui, fino a ieri, le attenuanti per il cosiddetto delitto d’onore ci svilivano come esseri umani.
Non riesco a sopportare l’idea di condividere anche solo i miei organi genitali con novantanove doppi assassini. Senza contare la mole vertiginosa delle violenze domestiche che non raggiungono le cronache. Atti che la pena mi rende impossibile razionalizzare. Teniamo talmente tanto al nostro pene che abbiamo fantasticato che ce lo invidiaste. È ora che cominciamo a vergognarci di averlo.
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