Aveva un fazzoletto ripiegato nella manica. Lo tirava fuori e scatarrava, dopo aver controllato che non ci fosse nessuno nei paraggi. Correnti d’aria si avvitavano senza posa, mettevano i brividi, e lei sussultava, immaginando che la scossa facesse in qualche modo parte dello spettacolo, che servisse alla messinscena dell’estasi e del rapimento. Le ossa cricchiavano e lei si lamentava. Maledetti spifferi!
Vide la sagoma dell’uomo affettata dalla luce lungo il corridoio. Bagnò sulla lingua la punta dello stilo. Scelse a caso una foglia tra le tante che riempivano la pisside.
Ma l’aria era inspiegabilmente immota, quel giorno, afosa.
Dovrò invocare il vento, pensò con stupore misto ad angoscia.
Se lanciassi le foglie, sarebbe facile per il tizio raccoglierle seguendo la successione con cui le lascio cadere. Potrei lanciarle tutte assieme, come tanti coriandoli, anche se il gesto sarebbe poco conforme al rito. Non scrivo qualcosa di sensato dai tempi della scuola.
Si era già arresa, quando uno starnuto le sfuggì roboando e buttò all’aria ogni cosa.
La Sibilla Cumana, caduta a terra, scorse tra le gambe l’uomo che correva disperato in cerca delle foglie.
Chissà quale sarà il vaticinio?, si chiese. Dire la verità qualche volta è un bene.
«Torni domani, oggi ho un gran raffreddore», aveva scritto.