La verità

Non so perché io e Enza, allora chiamata da tutti Enzù e che soltanto pochi anni dopo sarebbe diventata Enza la tossica, avessimo preso così a cuore compa’ Rafaiele, il pescatore. Sarà stata la tenerezza che ci ispiravano le sue spalle ossute e ricurve, quando era intento a riparare le reti, o i suoi occhi velati di cataratta, del colore del mare. Per me ed Enza, Enzù o Enza la tossica, tutto iniziò come un gioco.
Compa’ Rafaiele viveva in un basso, uno di quegli stanzoni che si aprono direttamente sulla strada. Ci aveva abitato da sempre con la moglie Caterina e un tempo anche con i suoi tre figli che poi, uno dopo l’altro, emigrarono in America. Andava a pesca tutte le sere e rientrava la mattina presto, dopo aver ormeggiato la sua barca ‘nderr a la lanz’.
Si volevano bene Rafaiele e sua moglie. Si facevano compagnia. Poi Caterina morì. Così, all’improvviso. Le venne un infarto mentre abbrustoliva i peperoni sulla graticola rovente, là davanti al basso. Accorsero tutti i vicini. Anche io e Enza andammo a vedere. Compa’ Rafaiele stringeva la mano di sua moglie: «Nun mi si lassànn! Nun mi si lassànn!» le ripeteva all’infinito. E invece Caterina lo lasciò da solo stavolta.
Un giorno compa’ Rafaiele era seduto davanti al basso con una lunga rete tra le mani. Era fermo, completamente imbambolato a rimirare un punto indefinito davanti a sé. Ci sembrò infinitamente triste. Quella sera stessa Enza arrivò con un involucro di carta marrone: «È una fetta del calzone di cipolla che ha fatto mia madre», disse. «Voglio portarla a compa’ Rafaiele».
Ci dirigemmo risolute verso il vicolo del pescatore. La porta del basso era socchiusa. Non si udiva alcun rumore dall’interno. Enza si avvicinò in punta di piedi alla finestrella e posò con cautela la fetta di calzone sul davanzale.
Scappammo via, verso la muraglia che dà sul mare. Non ci scambiammo una parola. Pensavamo alla faccia che avrebbe fatto compa’ Rafaiele quando avrebbe scartato l’involucro. Avrebbe annusato la fetta di calzone, circospetto. Le avrebbe dato un primo morso. Avrebbe masticato a lungo il boccone prelibato, con quelle sue guance scavate. Avrebbe assaporato la morbidezza della cipolla, cotta a lungo con le olive, a fuoco lento. E alla fine avrebbe sorriso.
Per tutta l’estate io e Enza portammo ogni sorta di prelibatezze sul davanzale della finestra di compa’ Rafaiele. Tutti i giorni, nelle ore più disparate, per non farci scoprire.
«Compa’ Rafaiele av’assùt matt» sentii dire da mia madre a mio padre.
«Va dicendo che la moglie gli porta la roba da mangiare dall’aldilà». Mi venne un colpo al cuore, ma feci finta di niente.
«Dobbiamo smettere» dissi a Enza. «Lui crede che è Caterina a portargli quelle cose, capisci?».
Enza non batté ciglio.
«E allora?» rispose. «Se pensa che sia il fantasma di Caterina, dov’è il problema?».
«Enzù, ma quello di cui lui è convinto, non è la verità!».
«E qual è la verità? Ciò che ti fa stare male o ciò che ti fa stare bene? Se quello in cui credi ti aiuta a vivere meglio, allora quella è la verità. La tua verità. Se una cosa è vera per te, allora è vera. E basta».
L’estate passò e ricominciò la scuola. Sul davanzale di Rafaiele si alternarono cachi maturi e caldarroste, frittate di funghi e marmellate di arance, fichi secchi e cartellate al vin cotto.
Tutto però ebbe termine con la fine di quell’anno scolastico: i nostri furti quotidiani e la nostra adolescenza. Anche il fantasma di Caterina smise di portare i suoi doni.
Mio padre ebbe il trasferimento a Milano e la famiglia di Enza ottenne la casa popolare a Japigia.
Il pomeriggio prima della mia partenza io e Enza, nascoste dietro un vicolo, fumavamo con foga una sigaretta dopo l’altra. Fumavamo e piangevamo. Lacrime e nicotina. Fumo e singhiozzi. Che ne sarebbe stato di noi e della nostra amicizia?
E che ne sarebbe stato di compa’ Rafaiele?
Tornai a Bari due estati dopo. Andai subito a cercare Enza a Japigia, senza trovarla. Venni a sapere che aveva preso una brutta strada. Adesso la chiamavano Enza la tossica.
Però rividi Rafaiele e non era più lo stesso. Da quando Caterina aveva smesso di portargli i suoi doni, andava ripetendo in giro che sua moglie era morta per la seconda volta. Mi fece pena, così abbattuto e incurvato.
Quale era il vero Rafaiele, quello più autentico? Il vecchio bizzarro che pedalava fischiettando sulla muraglia, con un fascio di tuberose fragranti da sistemare sotto il tabernacolo di Caterina, o il fantasma curvo, seduto davanti al basso ad aspettare la morte?
E quale era la vera Enza per me? Enzù o Enza la tossica? Quale era la mia verità, quella che mi faceva stare meglio? Avrebbe mai potuto, Enza la tossica, farmi smettere di amare la mia Enzù?
Sono passati tanti anni adesso.
Guardo il cielo grigio dall’interno del mio studio. Una farfalla si è posata sulla rosa canina sul davanzale della mia finestra.
Enza lo aveva capito già da allora. Me lo aveva detto prima che io venissi qui a Milano, prima dei miei studi, della mia laurea, del mio dottorato, prima che diventassi uno degli “strizzacervelli” più conosciuti della città. Ognuno si costruisce la propria verità, per sopravvivere, per difendersi, per mettere in scena una spiegazione razionale che funzioni, che dia pace al proprio cervello, al proprio dolore. E se quella verità, anche se frutto della propria immaginazione, cui poi si finisce per credere, serve a farci alzare dal letto la mattina, ad andare avanti, allora quella verità è vera. Quella verità è sacrosanta.
La farfalla che svolazza davanti alla mia finestra, una volta, era un bruco.

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