L’altro teatro

La Genova che lasciai all’inizio degli anni ’70 era una Genova pericolosamente incazzata, politicamente. Era impegnata con i sindacati, le manifestazioni, gli scioperi, con le importanti fabbriche e il grande movimento operaio, come tante altre città, però, al contrario di Milano o Bologna e Torino, dal punto di vista dell’innovazione culturale era spenta.
Ma non solo: stavano nascendo in tutto il mondo nuove strade e nuovi mestieri che la mentalità di una città tanto diffidente non riusciva a comprendere. E allora i giovani capivano che era ora di andarsene. Dei miei tanti amici di quei tempi a Genova non è rimasto nessuno.
Con l’ idea fissa di un teatro che non fosse solo lo Stabile di Genova, io e la mia amica Rita partimmo alla volta di Milano. Lei aveva superato la selezione per il corso di attori alla Scuola del Piccolo Teatro (allora con sede in corso Magenta) e io mi ero iscritta al corso di teatro, in Comunicazioni Sociali, all’Università Cattolica. Mi ricordo la segretaria si chiamava Irene e la tassa d’iscrizione era carissima.
Lì ho sentito il Prof. Sisto Dalla Palma parlare di un teatro che io avevo solo vagamente intuito, ma che lui, meraviglia, mi aveva detto esistente. Aveva parlato di un tale Grotowski, regista polacco e ci aveva fatto conoscere ol linguaggio del corpo dell’ attore, lo spazio teatrale non limitato al palcoscenico, la voce non mortificata dall’impostazione e dalla dizione.
Ricordo quei primi anni ‘70 milanesi come un turbine di avvenimenti, scoperte, emozioni. L’ avventura del teatro era formidabile non solo per chi lo faceva di mestiere, ma per tutti quelli che volevano sperimentare, provare, avvicinarsi. Antonin Artaud diceva “…io ho il diritto all’espressione”. E tutti volevano fare tutto.
Certo, tutti facevano politica, a volte con risultati disastrosi. Mentre il teatro è il mezzo di comunicazione più completo e dove trovi non solo narrazione, recitazione, rappresentazione, ma movimento, danza, gioco, gesto, spazio, voce, musica, tutto e altro. Chi vi si avvicinava allora poteva arrivare a conoscere altri modi di sentirsi e di sentire. Anche con le persone che mai più ti saresti aspettata. Nelle decine di laboratori che ho tenuto mi sono trovata a lavorare con le persone più disparate. In città l’ affluenza più alta era di studenti, insegnanti, intellettuali, ma appena ci si spostava un po’, arrivavano le casalinghe e gli operai.
Una volta in una sperduta provincia di Mantova, io e un’ altra operatrice ci siamo trovate davanti diciotto suore. Andò tutto benissimo, anche perché all’epoca non c’era l’ obbligo dell’ abito monacale e le sorelle vestivano ampie gonne e camicioni: e se per fare il “training dell’ attore” erano un po’ impacciate, la volontà e la voglia di sperimentare superarono ogni difficoltà.
Esiste anche un cattivo ramo della ricerca che dice: “Gettiamo un sasso nello stagno del teatro e vediamo quel che capita.”! Questa non è ricerca, è casino. A volte può anche venirne fuori qualcosa di interessante. Ma è puramente casuale.
No: la ricerca deve avere basi profonde e sì, portare scompiglio nello stagno del teatro tadizionale, ma portarne fuori gli elementi puri e farli rivivere in spazi nuovi, con nuovi elementi e la consapevolezza del mondo come è.
Lo spazio teatrale tradizionale, col suo fascino del palcoscenico, il sipario, le quinte, i camerini e tutto il resto, è troppo piccolo.
Tutto lo spazio è teatro: usiamolo.

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