Due squadre di calcio dilettanti che si fanno la guerra in un paesino della Barbagia, in una Sardegna arcaica e crudele, ripresa in bianco e nero, dove pastori, latifondisti e braccianti, vecchi e bambini hanno una sola feroce passione, quella del calcio. Dove il “mister” dell’Atletico Pabarile è un ometto cieco che allena la sua scalcinata squadra brandendo il bastone e impartendo ordini al buio, mentre quello del Montecrastu è un ricco possidente che si venderebbe pure la madre pur di portare la sua squadra in finale. A risollevare le sorti dell’Atletico Pabarile arriverà il pibe de oro Matzutzi, un pittoresco emigrato che dall’Argentina torna nel paesello natio. I destini delle due formazioni avversarie si incrociano con quelle dell’arbitro Cruciani, uno Stefano Accorsi in stato di grazia, che dall’arbitrare partite internazionali viene degradato a dirigere la finale tra il Pabarile e il Montecrastu. L’arbitro, opera prima di Paolo Zucca (Italia 2013) è un film grottesco, a tratti surreale, parlato in uno stretto dialetto isolano, tanto da essere sottotitolato. La fotografia, che fruga tra le pieghe aspre e polverose del paesaggio sardo è superba, come anche la musica e certi stacchi di danza che riprendono canzoni del ventennio fascista. La pellicola si apre con un omaggio ad Albert Camus, che fu negli anni ’30 giocatore in una squadra algerina: Tutto quello che ho appreso sulla morale e sugli uomini lo devo al calcio.
Parabola della vita politica, il campo da gioco è luogo di contrapposizione, di solidarietà e coraggio, di rispetto o dispregio delle regole, di corruttela e intrighi dove, come in politica, si vince o si perde per un solo punto di vantaggio.