Scarpe da tango
Ho comprato le mie prime scarpe da tango, e mia madre si è commossa quando le ha viste via skype. “Non avevi mai messo un paio di tacchi veri prima d’ora”, ha commentato.
Ammetto che prendere lezioni individuali prima di frequentare un corso di gruppo sia segno, se non di paranoia, almeno di una personalità con tratti ossessivo-compulsivi e di un bisogno patologico di controllo. Però mi sono inventata un alibi geniale: inutile ballare – io, principiante quasi assoluta – con un tipo più impacciato di me che non sa nemmeno marcare, cioè far capire alla donna dove intende andare a parare. Non mi diverto e non imparo niente, come è già accaduto in passato. La ragione vera? Ho bisogno di leggere – sempre, qualsiasi cosa faccia – nello sguardo altrui il commento “Apperò, la Capelli”. Traumi infantili, vai a sapere.
Alla terza lezione la mia insegnante mi ha dato un compito per casa: fare pratica con qualche “uomo vero” in una milonga. Ho iniziato con un circolo anziani di quartiere, dove arzilli vecchietti – il mio preferito era Tito, detto anche “il nonno di Easy Rider” – erano disposti a soprassedere sulla mia competenza come ballerina pur di farmi fare un giro. Poi sono passata a una milonga vera e non ho più smesso.
Il tango insegna più cose sulla comunicazione di un trattato di un autore di Palo Alto. E la più importante è non anticipare l’altro sulla base di quello che immagini ti stia per dire, ma aspettare che ti trasmetta l’informazione prima di reagire. Nell’attesa resta lì, non correre avanti. E se non hai compreso una marca, non rimuginarci per tutto il resto della canzone, ma concentrati sul passo successivo. Cose che valgono da sole i soldi delle scarpe e del corso.