Le origini del privilegio. Infanzia

Sembra che il babbo reduce dalla prigionia saltasse sul letto come scosso da elettrochoc per gli incubi, ogni notte, e di giorno studiasse indefessamente per finire gli studi interrotti e laurearsi in giurisprudenza. Di questo però, anche quando sono nata, io non sapevo niente. Il mio privilegio originario fu di aprire gli occhi in una casa bellissima, di essere coccolata e nutrita da una mamma bellissima (ricordo chiaramente lei che mi allatta in cucina, con la vestaglia grigia e i lunghi capelli neri, e il ricordo è autentico, perché mai nessuno aveva immortalato questi particolari insignificanti eccetto che per un bebè), di essere presa allegramente in braccio e in giro da un padre ragazzo, di avere una sorellina magnifica dagli occhioni blu e una gatta nera chiamata Mignina dal pelo lustro con cui giocare. Poi, naturalmente, la mia giovane nonna Irene dagli occhi verdi “gatùss” (da gatto, in mantovano; lei lo diceva di se stessa con una smorfia di disprezzo, aggiungendo: belli sono i tuoi, Cicioni, profondi e brillanti come jais!), fascinosa e affettuosa malgrado ci imponesse di chiamarla solo per nome – guai a dire “nonna”!- e il dolce nonnastro Mario detto Lollo, appena quarantenne, che ci deliziava con chicche, scherzetti e piccole cacce al tesoro quotidiane.
Era un nucleo familiare “praticamente perfetto” per un cucciolo umano ancora un poco ottuso e la tana che l’ospitava era immensa, alta, elegante, con le sue vetrate liberty, i salotti, i colori ambrati, i divani di raso, il lampadario di Murano più magico di quello della Scala. Ogni cosa, ogni luce, persino il buco nel parquet scavato da uno spezzone di bomba, era seducente e misterioso. Fuori, sotto le finestre di via Ariosto 32, sferragliava il tram e ferveva la vita della grande città. Come mi piaceva…
In fondo all’appartamento, sul cortile, c’era un terrazzo quadrato con grandi vasi di terracotta decorata con foglie di acanto (due sono ancora qui, in via…) dove io scorrazzavo pimpante sul mio triciclo. Più lontano, c’era il rumoroso, caloroso famiglione materno: nonni nonneschi e zie simpatiche e casiniste. Ero una bambina attenta, allegra e taciturna. (Proprio così, hai sentito bene.)
Ben presto ha cominciato ad affascinarmi la gigantesca libreria nel vasto ingresso (la percezione degli spazi è quella di una gattonatrice/trotterellatrice); non mi incuteva nessun timore reverenziale con la sua statura e la sua ampiezza, era anche così gentile da invitarmi ad aprirne le ante di legno in basso per annusare e sfiorare il suo fragrante contenuto. Così nacque il mio amore per la letteratura, che mi portò a tre anni a pronunciare la prima e ultima frase celebre: “Vorrei un ribro!” (A un banchetto di mercatino romagnolo, alla richiesta di esprimere un desiderio.) Sempre a quell’epoca, scopro il mio trastullo preferito, la logica aristotelica sulle ginocchia di papà, che ride, si diverte un mondo trasudando orgoglio paterno. Poco più tardi, a completare la mia felicità arriva un giorno un cucciolo di altra specie, il cane Ciuf: un barboncino nero da mangiare di baci, come si dice e si fa.
Bambina taciturna? Io stessa sono rimasta sorpresa quando il babbo me lo disse: ormai ero una donna con una fama di incontenibile logorrea, e tutti quelli raggiunti da questa novità retrospettiva ancora soffocano dalle risate all’idea. Eppure qualcosa riemerge. Passavo ore, credo, o forse erano solo minuti, ma così meravigliosamente dilatati dentro di me, in contemplazione di quei divani di raso mordoré, delle porte finestre ambrate, del buco nel parquet, degli occhi verdi, del manto di seta, delle zampe di velluto della gatta Mignina, delle immense tende chiare e fruscianti dei salotti, delle tendine gialle della libreria; oppure mi perdevo e planavo lontano, come mi capita ancora, in meravigliose rêvéries disneyane davanti allo spesso strato di parmigiano grattugiato che galleggiava sopra la minestrina serale, e tacevo a lungo, solo perché avevo di meglio da fare che essere sempre “presente”. Oppure ancora perché ascoltavo e pensavo intensamente, non conoscevo ancora la fretta.
Restavo ore ad ascoltare il tram e il suono della pioggia, il tintinnio delle unghioline del cane Ciuf che correva e derapava sul pavimento del corridoio liscio come uno specchio, i discorsi dei grandi a volte affascinanti, a volte solo ipnotici. La voce profonda della nonna Irene, quanto la amavo. Sembravo qualche volta un po’ musona? Può darsi. Altre volte – qui tornano ricordi sparsi – ero decisamente ridanciana, disinvolta e ciarliera, molto buffa. D’estate soprattutto.
Rivedo una scenetta: siamo in una lunga fila alla frontiera con la Francia, stipati nella 1400 di papà rovente sotto il sole. Io, quattro anni?, ho indosso una tutina tipo idraulico Tubi, di denim (si chiamava allora “tessuto spazzino”) rosso di cui andavo fierissima sul piccolo torace abbronzato, e mi rivedo a gironzolare tra le macchine ferme e attaccare bottone coi loro abitanti parlando in italiano e in un francese di fantasia. Altra scenetta: sei anni, abbigliamento hawaiano (un autentico gonnellino di paglia portato in regalo, come la tutina, dal nonno Lollo, grande viaggiatore), io sfreccio da un ombrellone all’altro sulla spiaggia di Milano Marittima, intrattenendo inermi famigliole sconosciute in una lingua polinesiana di mia istantanea invenzione.
Ero coraggiosa, addirittura temeraria, e… sportiva! Solo al mare, il mare meraviglioso. Ho imparato a nuotare per caso, per sbaglio, all’età di tre anni e mezzo. Ero sempre in acqua, e spesso, allacciata al collo di papà o
della mamma, si andava un po’ al largo, fino a una larga boa, una specie di piattaforma ancorata, affollata di bagnanti. Un giorno, fa per salire lì sopra un signore grassissimo, una montagna di carne, e la boa si inclina paurosamente facendo scivolare tutti in acqua. Io piombo giù e risalgo come una molla, ricordo le bollicine luminose sopra di me. Non ho bevuto, sto a galla, comincio a sbattere le braccine come un cane. Nessuna paura, massimo divertimento e di nuovo grande fierezza per la mia straordinaria avventura. Da quella volta, senza mai diventare una grande nuotatrice, in acqua mi sentivo nel mio elemento, facevo le gare a chi arriva prima, mi buttavo impavida dagli scogli, e il Ciuf approvava tenendomi d’occhio silenzioso – mentre con Irene, che nuotava molto meglio di me, diventava pazzo, si allarmava al punto da buttarsi regolarmente a salvarla abbaiando disperatamente…
Il mare, ovvero la felicità. Le estati interminabili, i tenui pastelli adriatici, le gouaches a tinte forti di Varigotti. E Milano Marittima la spiaggia dorata con le dune dai fiori gialli e il bagnasciuga trasparente del mattino presto, l’acqua “a quadretti” (come la chiamavo) e il viavai di granchiolini che disegnavano altre geometrie nella sabbia immobile. I venditori di bomboloni alla crema e spiedini di frutta caramellata che avanzavano cantilenando le loro offerte irresistibili, gli strilli e le preghiere di noi bambini; e più tardi, all’ora dell’aperitivo i ragazzi col secchio pieno di rosse bottigliette di Campari Soda circondati di candidi ghiaccioli per gli adulti.
La prigionia del primo pomeriggio, che barba! Eravamo messi a dormire, perché i genitori volevano farsi il pisolino. Ma chi dormiva? Nelle stanze non si respirava per l’odore di Flit, e allora, dai nostri letti di contenzione, emanavano chiacchiere sussurrate, sospiri e risatine. Poi la liberazione! Merende e giochi in pineta: io facevo il capo indiano, con mantello tipo serape, copricapo piumato e scarpe da tennis; Irene era il cowboy con pistolone e sproni, le cugine, esseri inferiori, le squaw. E dopo cena, di solito, tutti al bar-cinema-dancing Woodpecker sulla spiaggia; la tata Gina ci riportava a casa presto e i grandi tiravano tardi coi loro invidiati, misteriosi divertimenti.
Una volta, però, successe una cosa strana. Proiettavano un film la cui visione era riservata al gruppo dei genitori più – eccezione inspiegabile e insopportabile – Irene, la più grande di noi piccoli. Furibonda e offesissima per l’esclusione, io decido di violare l’apartheid con la mia complice, la cugina Margherita (figlia di zia Lietta). Sgattaiolate dalla finestra al pian terreno, raggiungiamo il luogo proibito a testa alta, ma non vediamo un accidente, veniamo sgridate sonoramente e riportate indietro per il coppino – forse il film peccaminoso era già finito, chi lo sa. Ad ogni modo io sono ancora arrabbiata da quella volta, il mio senso della giustizia e il mio bisogno di trasparenza era stato profondamente offeso da quel decreto mai motivato. Però qualcosa mi dice che il mio papà era orgoglioso della mia evasione…
Poi c’erano le gite. Il guado del Savio, quelle aventure!: acqua fino al collo, grossi sassi scintillanti di mica e legni spugnosi portati a casa come trofeo, sopravvissuti sul balcone di… fino a pochi anni fa. E veri viaggi in bicicletta a Ravenna per visitare i mosaici di Galla Placidia e in macchina fino a San Marino, scarpinando per le vie tortuose in salita, premiati alla fine dalla sosta in pasticceria a ingozzarci di quella squisita torta locale!
Nel frattempo il babbo, laureato cum laude col professor Jaeger, con moglie e due figlie infanti a carico della propria madre, volta le spalle alla carriera di avvocato cui sembrava naturalmente destinato per talento ed eredità (di suo padre, morto a ventott’anni), e, con l’ottimismo tanto della volontà quanto della ragione che era comune a tanti giovani sopravvissuti ai disastri della guerra, si lancia nella sua prima avventura imprenditoriale.
Bisognava ricostruire l’Italia, sprovincializzarla e farne un paese moderno! Dunque, l’elettronica. Col brutto e simpatico ingegner Scandola, lo zio Antonio, fisico, un certo Torquato – il maggior azionista?-, un tipetto detto Cappelluccio (di cui non ricordo le funzioni) e infine una prosperosa ma non avvenente segretaria, creano una società per produrre strumenti elettronici, la R.N.R. (Radio Non Radio): grandi progetti, gran lavoro e gran stupidera. Scandola, vero jazz maniac con impianto hi-fi avveniristico e muraglie cinesi di L.P., ne compone l’inno, sulla falsariga di Mack the Knife: “Mister Torkey (il Boss) with the Chap, (il Cappelluccio) he is working through the Tets (licenza per tits, la segretaria) he is trying to make money by the Applied Electronics…” etc.
Riavvolgiamo. (Il nastro cronologico è da prendere con le pinze) Pescando tra i ricordi felici e le prodezze infantili, mi torna in mente un’estate a Kitzbüel, in Austria. Paesaggio idilliaco, prati verde Veronese e margheritine gialle, mucche dal fiore in bocca, conche vellutate e sinuose, boschi e muschi verde muschio, ruscelli, radure, fragole, lamponi, mirtilli a volontà e a sorpresa. Ero fierissima del mio completino tirolese, mi pavoneggiavo. E mi divertivo, soprattutto alla sera – già allora! – perché la sera nella sala da pranzo dell’albergo c’era un’orchestrina che suonava canzoni americane.
Io amavo un pezzo in particolare e adoravo il maestro. Così una volta mi alzo da tavola (chiedendo il permesso, da bambina beneducata), me ne vado dritta verso il piccolo palco e chiedo gentilmente ma con un tocco di imperiosità: Please, Maestro, Again”. Sembrava un “encore”, e lo era, ma della canzone “Again”. E tutti scoppiano a ridere per questa mocciosa treenne che sembrava, ma non lo era, un pappagallo ammaestrato. Il maestro ricambiava i miei sentimenti, se pur con moderazione, tanto da prestarsi pazientemente a ogni sorta di sevizie. Mi lasciava passeggiare sulla sua vasta pancia mentre era sdraiato a prendere il sole sul bordo della piscina, che beatitudine! ma ecco che una volta, non so come, sono piombata giù da quella morbida collina di carne battendo il naso sulla pietra: sangue, urli, tragedia. Ma, passato il dolore atroce, subito tornò immutato Amore. Non sono questi i traumi.
Altro aneddoto glorioso: il nonno Mario/Lollo era il felice possessore (come forse ti è già noto) di una Vespa rossa fiammante. Un giovanotto tedesco, scambiandola per la propria, la inforca e fa per mettere in moto. Ma la piccola Daisy gli si para davanti e puntando il ditino sulla scritta in corsivo lo apostrofa in italiano: “No, questa non è la tua Vespa! Non lo vedi che c’è scritto Lollo?” A quel tempo, anno più anno meno, ho anche riconosciuto un nanetto del bosco – in mezzo a qualche bosco – in un fungo dal cappello rosso a pallini bianchi che si intravedeva nel folto della foresta. Forse sotto sotto io sapevo che non era la verità, quella convenzionale; però era la mia verità e l’ho sostenuta a spada tratta: quello è un nanetto, ve lo dico io! (Ancora adesso, ho i miei sacrosanti dubbi che non lo fosse).
Visionaria, taciturna, testarda, tremendamente interessata a ogni cosa. Ma perché mai ero così allegra e felice a quel tempo? L’amore e il buonumore, sicuro; che circolava, si respirava – o così mi sembrava. Ma anche quegli speciali privilegi, che non molti bambini apprezzavano più delle caramelle: i “ribri”, l’arte e la musica, le lingue e i paesi stranieri, i discorsi dei grandi.

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