Meglio arrivarci preparati, se possibile, visto che ci si arriva tutti.
Dato che la morte è un inevitabile corollario della vita, può tornare utile avere in serbo una frase di commiato che intenerisca e al tempo stesso conforti il pubblico: perché quello che circonda il morente è pur sempre un pubblico, e la sua uscita di scena l’ultima replica. Lo sapeva bene Mark Twain: “Un uomo di valore deve ragionare sulle sue ultime parole, annotarle su un pezzo di carta e farle leggere agli amici chiedendo cosa ne pensano. Per una faccenda tanto importante non ti puoi ridurre all’ultimo momento”.
La morte si può subire con stoicismo, si può accogliere come una liberazione, oppure si può combattere furiosamente, come grida il poeta Dylan Thomas al padre morente: “Non abbandonare la vita con rassegnazione, ma urla, strepita fino all’ultimo istante di vita”.
C’è chi resta fedele alla propria indole: “Lo sapevo! Sono nato in una stanza d’albergo e, maledizione, in una stanza d’albergo crepo!”, bofonchiava il commediografo Eugene O’Neill mentre se ne andava.
Ma pochi possono uguagliare l’impassibile aplomb di Luigi XIV, che striglia quelli che lo circondano: “Perché piangete? Non credevate mica che fossi immortale…”, o la leggerezza dell’impresario teatrale Charles Frohman, colato a picco col Lusitania: “Perché temere la morte? E’ la più bella avventura della vita!”.
E se Goethe fu lirico fino all’ultimo ed evocò la luce (“Mehr licht!”, gridò esalando l’ultimo respiro), Wagner più prosaicamente pensava a raccogliere l’orologio che gli era scivolato di tasca (“Meine Uhr!”).
Le ultime parole di Oscar Wilde, morto in un alberghetto parigino, furono all’altezza della sua fama di dandy: “O se ne va questa carta da parati o me ne vado io!”, sussurrò; e Lytton Strachey, snob fino all’ultimo, osservò: “Se morire è questo, non mi pare una gran cosa”.
Come Socrate, Picasso sul letto di morte raccomandò agli amici: “Bevete alla mia salute”, mentre Joe Di Maggio, ex marito della Monroe, sospirava: “Finalmente potrò rivedere Marilyn…”.
“Me ne ne vado in cerca del grande forse”, sono le ultime parole attribuite a Rabelais, mentre il filosofo Thomas Hobbes si congedò dichiarando: “Sto per intraprendere il mio ultimo viaggio, un grande salto nel buio”. “Guardatemi dai topi, or che son unto”, ghignò Pietro Aretino dopo aver ricevuto l’estrema unzione, mentre la regina Elisabetta d’Inghilterra, disperata, era pronta a “dare tutti i miei domini per un istante di tempo”. Nostradamus invece profetizzò: “Domani all’alba non sarò più qui”, e non si sbagliava.
Una morte degna dell’opera di tutta la vita fu quella del lessicografo e critico letterario Basilio Puoti, che disse: “Me ne vado” e chiuse gli occhi, salvo riaprirli un attimo dopo per sussurrare: ”Si può dire anche me ne vo”, e congedarsi definitivamente.
Ma Alfred Hitchcock, che di morte (degli altri) era pratico, sentenziava: “Non si può sapere come andrà a finire. Devi morire per scoprire cosa accade dopo la morte, anche se i cattolici sono convinti di saperlo già…”.