Non si scherza coi miti. Ma quarant’anni dopo, e se quel mito l’hai creato tu, ti viene voglia di andare a vedere che cosa ne rimane. E che cosa ne potrebbe nascere oggi.
Ian Anderson l’ha fatto. Si è rimesso al tavolino di allora, ha creato una band di talenti poco noti ma molto classici – di quella originale del ’72 qualcuno è morto, qualcuno ha cambiato sesso, qualcun altro solo mestiere – e si è immaginato come questi decenni avrebbero potuto agire sui personaggi di allora, così come su tutti noi.
Ne è uscito TAAB2, acronimo di Thick As A Brick 2, sequel – o per meglio dire sliding door – del capolavoro del 1972.
Qualcuno ricorderà o avrà avuto per le mani o in cantina uno degli LP con la copertina più originale mai realizzata: un giornale, l’immaginario St. Cleve Chronicle, 12 pagine fitte di articoli foto, cruciverba, strisce a fumetti, pubblicità. Nulla fuori tema, nulla a caso. Con l’album contenuto in una tasca in quarta di copertina.
Lo spunto era l’altrettanto immaginario pluripremiato poema di un bambino prodigio, Gerald Bostock di anni otto, orgoglio della cittadina appunto di St. Cleve e ospite della prima pagina del Chronicle. Il poema s’intitolava Thick As A Brick, e Ian Anderson – vero deus ex machina dietro tutto questo allora come ora – lo avrebbe musicato come quinto album dei Jethro Tull, sua band e creatura prediletta, sotto forma di una suite di due facciate, senza soluzione di continuità.
Progressive Rock, si disse. Parodia del medesimo, si aggiunse. Musica, e di quella bona, avrebbe tagliato corto Puccini (frase che gli viene effettivamente attribuita dai biografi dopo un ascolto di jazz).
Il tema centrale del poema di Bostock del ’72 è l’ottusità impenetrabile degli adulti, metaforicamente paragonata dagli inglesi al mattone, che pianificano con arroganza il futuro di un ragazzo che chiede solo di crescere in pace.
E oggi Anderson si domanda che ne è stato, quarant’anni dopo, del piccolo genio Gerald Bostock. Col meccanismo paradossale delle sliding doors gli cuce addosso una carriera da squalo della City, una da Ufficiale di Sua Maestà, lo veste da homeless gay, da predicatore con un debole per le offerte dei gonzi, da mite negoziante con la passione per i trenini elettrici. E tutti e cinque all’alba dei cinquanta, quando il bilancio delle occasioni perdute si presenta da sé, decidendo ciascuno di cambiare vita sembreranno riunire in una le loro diverse solitudini.
Per la parte musicale di TAAB2 Ian Anderson ha pensato a noi, vecchi ascoltatori del vecchio giornale. Non ci ha voluto sorprendere, ma rassicurare con sonorità e strutture melodiche mai tramontate nei nostri desideri. L’inconfondibile simbiosi della sua chitarra acustica e della sua voce, l’overblowing del suo flauto traverso, ancora una volta s’intrecciano a sferzate elettriche, tra punteggiature di Hammond e glockenspiel. E chi li ha amati a tratti ritrova quel certo brivido lungo la schiena.
Dopo quarant’anni, Ian Anderson fatica a reggersi su una gamba sola per travolgere il pubblico coi suoi a solo di flauto – il pastrano che svolazza al pari della chioma che non ha più: ha giocato col suo stesso mito. E il mito è stato al gioco.