Le ultime sette parole di Isadora Duncan

Allora la sua anima danzò. Si sollevò dalla Bugatti e dalla lunga sciarpa che l’aveva strangolata. Da ogni parte c’era tutta la musica del mondo. Le polacche di Chopin, l’Ave Maria di Schubert. Era l’Eleuteron tanto agognato, la liberazione dello spirito e del corpo. Da ogni parte c’era il volto pallido di un poeta russo amato alla follia. C’era la musica e lei volava, come sempre scalza. La danza è respiro, non geometria. La danza è arte sacra, è albero, onda, vento, erba. È tutto ciò che di bello c’è al mondo. La scenografia di Isadora era il cielo. Gli angeli non parlano, possono soltanto danzare. Scrisse poesie coi piedi, donò consistenza fisica all’energia. Da ogni parte i maestri Nietzsche e Withman. Isadora danzò l’infinito. Restò sospesa in un eterno ballon, poi saltò ancora, il corpo proteso in avanti. Congiunse lo spazio e il tempo nella naturalezza della perfezione. Iniziò un passo a due con la morte. En avant, Isadora! Un déboulé, una piroetta in arabesco, una volé. Si innalzò sopra ogni tipo di dolore: la figlia abbandonata, la sposa tradita, la madre sopravvissuta ai figli, l’esule. Il male l’aveva colpita da ogni parte. Danzò oltre la soglia del dolore. Anche l’ultimo, causato da una sciarpa troppo lunga.
Addio amici miei, vado verso la gloria.

 

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