La riforma su cui saremo chiamati ad esprimerci il 4 dicembre non tocca la prima parte della nostra Costituzione, quella in cui vengono definiti i principi e i valori fondamentali della nostra democrazia; ma solo alcuni articoli della seconda parte, che stabilisce l’assetto istituzionale che dovrebbe consentire a quei valori e a quei principi di realizzarsi.
Mentre la prima parte mantiene intatto il suo profondo significato, la seconda parte reca il segno del tempo, presenta più di un’anomalia, favorisce l’instabilità politica e rende farraginoso il processo legislativo.
Pesa, in particolare, il bicameralismo paritario inserito in una forma di governo parlamentare; il nostro Parlamento è composto di due camere che hanno entrambe piena funzione legislativa e la fiducia di entrambe è necessaria per far vivere il governo. Nessun’altra democrazia al mondo ha qualcosa di questo tipo.
Il compromesso fatto allora su questo punto (e anche su qualche altro) risente del clima di diffidenza tra le forze politiche, soprattutto le due maggiori Dc e Pci, che hanno partecipato alla stesura della Costituzione. Molti degli stessi costituenti, ad esempio Giuseppe Dossetti, o personalità come Gaetano Salvemini, dissero che prima o poi sarebbe stato necessario superare il bicameralismo paritario.
Lo fa, finalmente, la riforma costituzionale oggetto del referendum; il Senato diventa una camera delle autonomie: non darà più la fiducia al Governo e si occuperà soprattutto delle norme che riguardano le autonomie (Comuni e Regioni; non più le Province che vengono ovviamente eliminate anche dalla Costituzione); oltre ad eleggere giudici costituzionali e partecipare alla elezione del Presidente della Repubblica.
Questa riforma contiene, inoltre, altri tre importanti punti. Il primo riguarda la revisione del Titolo V che ridefinisce i rapporti tra Stato centrale e autonomie in modo da evitare conflitti di attribuzione e da riportare allo Stato centrale alcune materie di interesse nazionale come l’ambiente, la gestione di porti e aeroporti, trasporti e navigazione, la produzione e la distribuzione dell’energia, le politiche per l’occupazione, per la sicurezza sul lavoro e l’ordinamento delle professioni.
Il secondo punto riguarda l’introduzione di tre strumenti volti a favorire la partecipazione: l’abbassamento del quorum per i referendum abrogativi, l’introduzione dei referendum propositivi e di indirizzo e l’introduzione dell’obbligo per il Parlamento di discutere le leggi di iniziativa popolare. Il terzo punto riguarda la riduzione dei costi della politica, la più significativa che sia mai stata realizzata in Italia, che contribuirà a restituire autorevolezza alla politica e alle istituzioni.
Nell’insieme, la riforma si ispira ad un principio di cautela. Lascia, infatti, intatta la forma di governo parlamentare; non modifica i poteri del Capo dello stato; addirittura rafforza il sistema delle garanzie (i cosiddetti “pesi e contrappesi”), perché non tocca i poteri dalla magistratura e rafforza quelli della Corte Costituzionale a cui dà la possibilità di verificare la costituzionalità di una legge elettorale prima della sua entrata in vigore.
E’ una riforma che si colloca, dunque, in continuità con la nostra tradizione repubblicana e al tempo stesso delinea un assetto istituzionale in grado di consegnarci una democrazia più solida, più funzionale, più trasparente e più partecipata. William Burroughs diceva che “la cosa più pericolosa da fare è rimanere immobili”; questa riforma ci consente non solo di muoverci, ma di farlo nella giusta direzione.
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