Se donna è gatta, come diceva Baudelaire, Leonor Fini, nata il 30 agosto 1907 a Buenos Aires da padre argentino e madre triestina, pittrice autodidatta, scrittrice e illustratrice, di sicuro gatta lo era. Gatta dall’incedere inconsueto e regale. Corpo sinuoso, unghie affilate, sguardo seducente e magnetico. Occhi nero bluastro, a detta di Max Ernst, uno dei suoi tanti amanti. Occhi pungenti come spilli, incastonati in quel volto che amerà spesso ritrarre accentuandone i tratti felini. Lei stessa sosteneva di esser figlia di una donna e di ‘Sua Maestà’, un bel gattone cosi affettuosamente chiamato. A convalidare il grado di parentela col genere felino frotte di gatti persiani per casa. Sulle sedie, sui divani, nel suo letto, così come nei suoi quadri: Moutchi, Siam, Zingarella. I gatti costituiranno sempre una presenza simbolica predominante nelle sue opere, rimandando all’idea e all’esercizio di un potere sciamanico, sovrannaturale, di un erotismo istintuale e voluttuoso.
Espressione autentica della sua eccentrica e spregiudicata vita sia privata che artistica. Come altre figure femminili ricorrenti, sospese, enigmatiche, asessuate, misteriose e saffiche: la sfinge, i temi dell’ambiguità e del doppio calcheranno una sorta di palcoscenico teatrale. Amante del travestimento era solita ricevere gli ospiti o uscire pubblicamente indossando una maschera da felino. Simbolo e ripercussione di un antico trauma infantile oppure semplice stratagemma che utilizzerà per scandalizzare amici e colleghi. In tenera età la madre, figura alla quale resterà sempre profondamente legata, l’avrebbe costretta a indossare solo abiti maschili, a mascherarsi pur di scongiurare un assurdo tentativo paterno di rapimento a seguito della turbolenta separazione.
Leonor Fini, annoverata tra le Signore poco conosciute del Surrealismo insieme a Leonor Carrington e a Rimedio Remedios Varo, era una donna definita spesso insolente, promiscua e mai schiava delle convenzioni. Nota per il suo spirito battagliero e per gli scabrosi triangoli amorosi tra cui, il più noto, quello vissuto in contemporanea con il diplomatico e pittore Stanislao Lepri e il bell’androgino scrittore polacco Konstanty Jelensky. In altre parole: una donna talentuosa e libera. Nel 1936, già inclusa in una mostra collettiva di pittori surrealisti al Mo.Ma di New York, era temuta sia dai massimi esponenti della letteratura che dai colleghi maschi del movimento surrealista di quella fervente Parigi anni trenta in cui si era trasferita dopo aver vissuto il periodo adolescenziale nello spirito cosmopolita triestino. Breton, Picasso, Dali’, Paul Eluard, Cartier Bresson pur presentando, cantando, fotografando ‘Lolò la belle italienne’, finiranno per estraniarla dal panorama culturale dell’epoca, non potendo relegarla al consueto ruolo di musa o amante. Lenor negherà sempre l’appartenenza alla corrente surrealista, non aderendo a nessuna costrizione teorica e concettuale che preferirà evitare tracciando, in autonomia, un percorso originale. Dipingerà sempre con la stessa naturalezza e spontaneità con cui intersecherà, contraddistinguendolo, tutto il suo vissuto. Ciò che farà di lei un’icona, un’opera d’arte vivente e una delle massime artiste del XX secolo.
Una bella mostra di livello internazionale, di recente allestita al Museum of Sex di New York, ne ha recuperato la traccia. Di questi tempi, sembra doveroso dar voce e visibilità a un’importante parte della genealogia femminile spesso ignorata, se non del tutto esclusa per decenni, dal panorama culturale e artistico in cui ha invece degna e legittima cittadinanza.