Ti scrivo più forte, ma ti scrivo col cuore, quel cuore che hai curato dentro e fuori.
So che senti. So che i cuori che hai curato con la tua musica e le tue parole sono molti di più di quelli che hai curato con la medicina. E quanti ne curerai, ancora.
La musicamedicina è la tua vita. Quando ero piccola, ma proprio piccola, urlavo VENGANCHIONOTTUNO. Quando sono diventata più grande, ma non così tanto, modellavo il mio dialetto sul tuo, e canticchiavo ELPURTAVISCARPDELTEEEEENIS.
Quando ho capito che non ci voleva solo l’orecchio, ma anche il cuore, ho scoperto la rude tenerezza, la mediocrità sublime, il disincanto ironico, l’alchimia tra sogno e poesia della tua musicamedicina. Voce e piano. Piano e voce, una voce popolare, come ho immaginato fosse la voce della Milano che stavo scoprendo, fra la Via Larga e la Bovisa.
Una Milano da scoprire, polvere sottile sotto il tappeto di Montenapoleone, ruggine fra le rotaie della Nord, e nebbia sporca, scighèra, che vela e nasconde, e aspetta che qualcuno ne scopra la bellezza. Una Milano ruvida e vera. La Milano di Viola, Fo, Gaber, Brera, Della Mea, Cochi e Renato, Celentano. Ma soprattutto la Milano di Vincenzina, Giovanni, Mario, Armando, della Lina, della Maria, di Silvano. Di me, di tutti noi, che per andare in mezzo alla vita abbiamo sempre avuto bisogno di un’ombrella che ripara la testa.
Ti ho sentito, venti anni fa, a Lecco. La tua faccia non l’ho vista. Troppa gente. Ma la tua voce sì, l’ho sentita. La tua voce in un concerto è come quella di Gaber. Penetra nell’anima, arriva al cuore, e lo medica. Sono tanti, ormai, gli artisti che ho sentito in un concerto e sono andati altrove. La loro voce, però, mi resta dentro.
E comincia a farsi sopportabile l’idea di lasciare questo mondo, se altrove troverò quelle voci, insieme, che cantano e curano dalle fatiche del viaggio. Tu, ne sono certa, stai trovando quelle voci. E nel canto che stai iniziando, e che non finirà più, troverai il modo per guarire per sempre.
Grazie.