Dall’altro palazzo
Un pomeriggio, era quasi Natale, uno dei Vecchi scese nel Cortile. Noi avevamo una media di 9 anni per uno e ce ne stavamo seduti stretti su alcune cassette a prenderci un raffreddore e a raccontarci delle balle. Il vecchio aprì la porticina del Cortile e ci guardò.
“Volete vedere il mio presepio?”.
Ci raccomandavano sempre di chiedere il permesso per ogni cosa. Ma la situazione richiedeva indipendenza e coraggio: non c’era tempo per mamme, tate, nonni. Seguimmo il vecchio per scale sconosciute. Più grandi, più pulite. Nel mezzo, sospeso, un ascensore tutto di vetro che ancora oggi, chissà perché, naviga in verticale tra i miei sogni e i miei incubi .
Il vecchio non parlava . Forse aveva paura che saremmo scappati se lo avesse fatto. Non sapeva che non ce ne saremmo andati nemmeno se si fosse trasformato in un drago. Era un’avventura, e a 9 anni di media, a un’avventura non si rinuncia mai. Entrammo dunque nella casa del vecchio, dove c’era anche una vecchia. Tende di velluto rosso separavano le stanze. Piccolo gruppo compatto, passammo un ingresso, un salotto, una camera da pranzo. Il vecchio ci guidava, la vecchia ci seguiva. Sospesi tra loro come un pensiero . Lui aprì una porta e tutti sgomitammo un po’ per vedere.
L’intera stanza era stata trasformata in un mondo piccolissimo ma perfetto. Betlemme o Lilliputh che fosse, restammo senza fiato e senza palpebre.
“Entrate. Si può camminare su quest’erba e arrivare alla capanna”. Il vecchio era felice e spiava la nostra meraviglia. Camminavamo tra statuine senza espressione. C’era la guardiana delle oche, il venditore di vino, il pastore, il bambino che correva, la pecora spersa, il cane con la lingua rossa, il mendicante, il suonatore, la coppia di innamorati, il mercante di stoffe, galline in quantità, casette illuminate con dentro un tavolaccio e un camino, alberelli, colline, un’ erbetta secca e morbida dove centinaia di persone di cartapesta arrancavano. Ci trovammo davanti ad una madonna sorridente e preoccupata, che fissava la mangiatoia vuota.
Carlo si lasciò sfuggire l’estro del silenzio: “Dov ’é?!” disse puntando il suo dito grasso tra Maria e Giuseppe. Il vecchio lo guardò male: “Non sai che Gesù arriva solo la notte di Natale? Come fa a stare qui se ancora non è nato?”. Schiacciante. Lo guardammo con ammirazione: dunque era proprio lì, nella casa del vecchio, nel Palazzo accanto, che nasceva Gesù Bambino!
“…e poi verranno i re Magi. Ma impiegheranno qualche giorno: il viaggio è lungo…Volete una cioccolata?” .Ci voltammo verso la vecchia, ricordandoci all’improvviso che eravamo dove non dovevamo essere. Non si accettano dolci da uno sconosciuto. Maurizio disse che si doveva tornare a casa: “grazie, buonasera… “Eravamo tutti talmente educati…
Nessuno disse al vecchio che aveva fatto un gran bel lavoro e che l’avremmo ricordato per tutta la vita, ma lui aveva un’ultima sorpresa, che accese con un interruttore e un’aria di trionfo. Dalla montagna di carta e muschio zampillò una cascata di acqua vera, che si trasformò in ruscello e poi in un lago poco più in là dei nostri piedi. Sorrideva, il vecchio. Lo guardai, riconoscendolo. E dovette riconoscermi anche lui, perché fummo poi amici per tanti anni. Senza tempo e senza età, si può. Si può essere e sognare, specchiandosi in laghetti d’acqua di rubinetto, dando un’anima alla cartapesta e togliendola a bambini grassi che non sanno vedere.
Mentre scendevamo per le scale Rocco e Maurizio fecero colare il terrore nelle orecchie di Claudio e Carlo. Parlando piano piano, ma non troppo piano, dicevano che avevano visto muoversi il pastorello. E anche la guardiana delle oche…”Ci hanno lasciato andare… Meno male! Hanno avuto paura che ci sarebbero venuti a cercare, per questo non ci hanno trasformato come hanno fatto con tutti quei poveretti…”. Strizzarono l’occhio a noi femmine, ma Rosalba, evidentemente, non lo notò, perché cominciò a correre insieme a Claudio e Carlo, chiamando la madre con voce piagnucolosa. Dovemmo fermarci per il troppo ridere.
Chi ride di venerdì piange di domenica, diceva mia nonna. Ma era venerdì e piangemmo tutti quel giorno stesso. Lucia si era affacciata e non ci aveva visto nel Cortile. Era scattata una caccia al bambino che aveva coinvolto fino alla seconda generazione i nostri parenti. Urlando, correndo, svenendo e palpitando, ci avevano cercato in ogni angolo del Palazzo. Anche in quelli nostri, segreti. “Allora li conoscono…”mi fece notare qualche giorno dopo Rocco. Erano i tempi in cui più si parlava di dischi volanti, e l’ipotesi che fossimo stati rapiti dai marziani non fu tralasciata. Qualcuno si affacciò tremando sulle vasche, qualcun altro andò ad accecarsi sulla Terrazza. Setacciati il Cortile e le tane dei topi, svegliati i gattini nello sportellino del gas, sbaragliata la nostra organizzazione di cassette e barattoli, buttati all’aria i cartoni che ci riparavano dalla pioggia. Furono vandali. Quando ci rimaterializzammo in Cortile fummo presi e sbatacchiati come tappetini prima di essere riportati a casa. Dove ci aspettava il classico “resto” (…”poi a casa ti do il resto!”) . Non si é mai scoperto perché , dopo uno spavento e un lieto fine, i genitori sentissero l’insopprimibile istinto di riempire i figli di botte. Allora tanto valeva farsi male da soli… Non ce le prese solo Daniela, quel giorno, anche se ce ne prese sicuramente più di noi.
Il vecchio venne casa per casa dopo cena. Si scusò. Era stata colpa sua, disse. Scoprii che era considerato “una persona importante” e tutti i Grandi si affrettarono a minimizzare. A scusarsi per il disturbo che avevamo potuto dargli. Che non doveva preoccuparsi. “Per caso danno fastidio quando giocano nel Cortile ?” “Macché, macché”. Il vecchio chiese a mio padre se qualche volta potevo andare da lui a tenergli compagnia, che gli avrebbe fatto piacere. Aveva scelto me e Rocco, ma Rocco finì per non venire. Un peccato. Perse tutta la collezione di Topolino, dal primo numero, rilegata in rosso. Le diapositive con gli animali tropicali. Il gioco del tappeto volante nel lungo corridoio e tra le tende di velluto. Le bottiglie da riempire d’acqua “a chi fa prima”. Le mille e mille storie che il vecchio sapeva. La cioccolata densa , che lasciava i baffi, della vecchia. I racconti che il vecchio voleva sentir nascere, e più erano bizzarri e più si divertiva.
Un giorno mi fece trovare una macchina da scrivere, dei fogli, una bella matita blu: “Scrivi le tue storie. Poi le leggeremo insieme”. E mi sfoderò la vita.
Le macchine
Parcheggiato sul viale, proprio davanti al Palazzo , c’era buona parte dell’orgoglio dei nostri padri. Una in fila all’altra , stavano automobili lucide , che anche dopo anni non perdevano l’ odore della benzina e della plastica delle foderine. Erano quasi tutte 600, tranne la 1400 del padre di Carlo e quella del mio. Bianche o grigie, avevano però il colore virtuale delle penne dei pavoni. Erano il riscatto di anni di tram. Tram per ovunque, anche per andare al mare.
Con le macchine i padri andavano al lavoro, e poi tornavano a casa. Le guidavano sentendosi Nuvolari, le posteggiavano con l’aria di chi le aveva sempre possedute. La domenica caricavano sogno su sogno e portavano la famiglia in gita. Intorno a Roma era un cantiere, ma c’erano ancora tanti prati. Si andava dopo il pranzo, portando anche i nonni. Noi bambini si stava sulle ginocchia di qualcuno, e dopo tre curve e quattro semafori si aveva già voglia di vomitare.
Quando si arrivava si facevano schioccare copertine scozzesi nell’aria, facendole planare su erba vergine. Si tiravano fuori dalle borsette i thermos col caffè caldo. La macchina in un posto da poterla tenere d’occhio, i padri accendevano le radioline per ascoltare le partite, le donne chiacchieravano tra loro, e noi facevamo corse da pinguini. Goffi, coi nostri passamontagna e i cappotti troppo grandi, ci ubriacavamo subito di sole. Erano ancora anni in cui i genitori ci dicevano di respirare forte, perché l’aria era “buona” e ci faceva bene.
Spesso le famiglie del Palazzo facevano gite insieme, perché in fondo ogni Palazzo era una comunità. Non che le famiglie si amassero, ma il cattolicesimo di quei tempi dava una mano alla convivenza. Dove non arrivava la simpatia, soccorreva la tolleranza.
Al ritorno, avevamo della città una visione che mai più avremmo avuto. Sdraiati sulle ginocchia di qualcuno, insonnoliti e intorpiditi dal sole che ci aveva picchiato in testa, sapevamo di tetti e mansarde, croci, balconi, comignoli, pali, ultimi piani, cornicioni, terrazze. Soprattutto conoscevamo l’intrico di fili neri, di snodi e scintille , che guidava il percorso dei tram. Quei tram sgangherati che tanto avevano fatto patire i nostri padri, fatti col ferro e col legno. Vecchio ferro e vecchio legno, che producevano insieme un rumore vecchio, ancora oggi inconfondibile nel ricordo, che era come una carica di armature vuote.
La Circolare. Ci si andava a destra e a sinistra della città. In dentro e in fuori. Ci si reggeva ai tubi di metallo e li si sentiva vibrare. Mai andare nel mezzo, dove la pedana girava nelle curve, e non c’erano appoggi: “stai qui, stai seduta, stai buona”.
A noi bambini perbene piaceva andare in macchina. E comunque era meglio che andare in Vespa, come i bambini poveri, incastonati tra mamma e papà. Chissà se anche loro si addormentavano, cullati dai sanpietrini e dalle buche della Roma del dopoguerra. Noi ci addormentavamo, e il rientro in casa era “in braccio”. “Stai diventando pesante…” dicevano col fiatone salendo le scale E in quel “pesante” c’era, con poche variabili, l’ineluttabilità del crescere. Saremmo stati sempre più pesanti, per i nostri genitori e per noi stessi.
Mio padre, prima di morire, diventò leggero. Si diventa leggeri da vecchi. Forse per potersene andare più in fretta. Come quei viaggiatori che ho sempre invidiato, che partono con una borsina e senza ansie. Si torna leggeri. Con le ossa vuote da uccello. Le persone che stanno per morire si asciugano e scoloriscono. Il naso di mio padre, così aristocratico nella maturità, era un becco trasparente. E gli occhi chiusi, come quelli di un neonato che dorme. Ma non è vero che i morti “sembra che dormano”: sono bucce senza respiro. Gli dicevo: vai, sereno. Volevo dargli coraggio mentre mi nasceva la paura nello stomaco. Paura che facesse un gran sospiro, e tornasse indietro a soffrire. Che mi chiedesse ancora “perché?”.
Restare lì con lui o scappare? Coi morti non si sa mai che fare.
“Che devo fare, ora, con te? Bisogna lavarti? Farti benedire? Vestirti? Vegliarti? Spegnere la luce e andare via? Andare via e lasciartela accesa? Parlarti? Perché non mi hai mai detto quello che dovevo fare?”
Mio padre non me lo diceva mai cosa dovevo fare. Ma lo pensava, e se non lo facevo si arrabbiava. Anzi, si offendeva. Mi insegnò però a guidare che ancora non arrivavo a vedere fuori. Andavamo a Ostia, sul piazzale, e lui mi prendeva sulle sue ginocchia. Mi dava il volante: “Di qua…di là…cambia la marcia…” . In città mi insegnò “la legge del pirolo”. E cioè: quando tutte le macchine si aggrovigliano in qualche piazza o in qualche via, bisogna superarle dall’esterno. Mai finire nel centro, mai, si resta impigliati come una mosca nella ragnatela. La legge del pirolo va bene anche con la gente che parla troppo o pensa troppo male. Via andare. Superare. Dimenticarla. Fermarsi, invece, si doveva davanti alle palle colorate che sbucavano dai marciapiedi. Fermarsi subito, perché ”dietro ogni palla c’è un bambino”.
Quando si viaggiava, io e mio padre eravamo un team perfetto: cambiavo le marce appena sentivo che la sua gamba si muoveva per schiacciare la frizione. Strano che non ci abbiano mai arrestato. (continua)