Uscendo da scuola, giù alle rampe di Sant’Antonio allentavo il passo e, pur imponendomi di mostrare coraggio, non potevo ignorare le piccole scosse di paura che risalivano su per la schiena. Così, allungavo lo sguardo oltre l’angolo del muro bianco che correva verso il mare e se c’erano i cani, tornavo indietro: cambiavo strada.
I cani erano due. Non ne ricordo i nomi, ma ricordo le zanne e la lingua ciondoloni. Il taglio allungato degli occhi vispi era lo stesso dei loro padroni, i fratelli C. che presidiavano un tratto di strada con angherie e furberie da bravi manzoniani, o da capi achei.
Nel campo di battaglia che è l’infanzia, la loro era una trincea pericolosa, un valico arduo che allontanava la spiaggia della Mandra, dove abitava la nonna, dai piccoli piaceri cittadini di Ischia Ponte. E i due cani erano il prolungamento famelico e bestiale dell’animosità dei loro giovani padroni.
I fratelli C. avevano due sorelle più grandi, una rossa e l’altra bionda, che quando passeggiavano insieme sembravano esibire i confini estremi dell’intero fascino femminino. Indossavano jeans e annodavano al collo foulard variopinti, che da allora nella memoria restano impressi come il suggello di una bellezza fiera e indipendente.
Quanto li ho invidiati i C.! Potevano tutto, tutto ciò che a me era precluso. Ed erano tutto, tutto ciò che io non potevo essere.