Talvolta ripenso alle mie domeniche negli anni ottanta, diciamo dai sette/otto ai quindici/sedici anni.
Ed erano, indubbiamente, domeniche molto diverse da quelle odierne.
I negozi erano chiusi e, quasi a sottolineare la giornata dedicata al riposo, il tempo pareva trascorrere ad un ritmo tutto suo, direi decisamente rilassato.
Spesso vedevamo gli amici dei miei genitori, due coppie con relativi figli. Ricordo che venivano loro da noi oppure, più spesso, eravamo noi ad andare a Torino.
Nulla di trascendentale, ma quei sorrisi e quelle ore trascorse insieme erano una costante, un rifugio sicuro dentro in cui entrare.
Loro, immancabilmente, ci dicevano che eravamo cresciuti ma, secondo noi invece, eravamo sempre identici, ché forse solo i vestiti dicevano il contrario.
Pranzo insieme e poi in giro da qualche parte – con relative domande a chi, in possesso della radio, ci potesse dire l’andamento delle partite – e il rientro a casa dell’ospitante, con ancora tempo per giocare un pochino tra di noi.
Spesso ci fermavamo ancora a cena, avanzi pomeridiani oppure una minestra volante quando il pranzo era stato troppo abbondante. Infine si rientrava a casa, si crollava in auto, e ci si svegliava con il suono della freccia mentre si entrava nel cortile di casa.
E mi viene da pensare che eravamo davvero felici.
Senza, probabilmente, saperlo.
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