Lo specchio

Volodymyr.

La cosa peggiore fu incrociare lo specchio. Nulla era in piedi nella casa sventrata, nulla evocava la propria funzione originaria. Il grigio dei calcinacci aveva coperto ogni cosa, riducendo i frammenti a massa amorfa. Solo uno specchio con la cornice dorata era rimasto intatto, pronto a restituirgli l’immagine di un uomo sporco di sangue e terra, le labbra tese in un ghigno insieme crudele e terrorizzato. Volodymyr non riusciva a riconoscersi, le guance scavate avevano perso la morbidezza un po’ infantile che aveva il suo volto da nerd, gli occhi, poi, avevano una ferocia che mai era appartenuta a Namiorenghicchiò, così lo chiamavano i commilitoni.
Il soprannome nasceva dall’intervista che un giornalista gli aveva carpito in piazza Maidan, trentacinque giorni prima, quando i russi avevano dato inizio all’invasione dell’Ucraina. Lo assalì, come sempre quando ricordava l’episodio, la vergogna e l’imbarazzo per l’epica figuraccia in mondovisione, e si lasciò cadere sulle macerie abbracciando, insieme alle ginocchia, il suo fucile. Gli avevano chiesto cosa avrebbe scelto di fare, e lui aveva balbettato che sarebbe andato a combattere per il suo paese ma, oltre al tono poco marziale, gli era scappato un sorrisetto nervoso e aveva aggiunto: “Io poi sarei anche buddista…”.
Aveva seguito il flusso dei suoi pensieri senza coglierne l’incongruenza, era così preso dalla sua conversione, da un lato, e dallo scandalo per il sopruso subito dal suo paese, dall’altro, da voler spiegare che anche uno come lui avrebbe fatto la sua parte, perchè è giusto, no? Il ragionamento era risultato un po’ sbilenco, come la sua spiritualità. Lo aveva interrotto Mykyta, il leader del suo gruppo di amici, un tipo alto e grosso, capelli corti e spalle imponenti, l’opposto di una nullità occhialuta come Volodymyr si era sempre percepito. Ovviamente, Mykyta avrebbe preferito non combattere, lo aveva affermato senza esitazioni. I Mykyta non si pongono il problema di piacere, non si arrovellano a cercare le parole, per loro è scontato essere, esistere. I nerd occhialuti rimuginano, esitano, si pentono e infine osano, e la montagna della riflessione partorisce il topo recalcitrante della scemenza. Questo avveniva un battito di ciglia fa, quando ancora il mondo non si era rotto e tutto volava sul pelo dell’acqua, né più su né più giù.
Eppure. Perfino nell’asfittica normalità un minuscolo battito d’ali aveva condotto la vita di Volodymyr a quote per lui vertiginose. Nel gruppo dei suoi amici era entrata Mariya, una ragazza di Kiev che aveva vissuto in mezzo mondo, suo padre era inviato per Ukraïns’ka pravda. Mariya li scombussolò un bel po’, non faceva nulla di prevedibile. Per esempio, non scopava con Mykyta.
Grazie alla volubile ragazza, Volodymyr aveva scoperto il buddismo, un dono di lei per aiutarlo a esistere. Tutti i fine settimana andava in ritiro, anche dopo che la ragazza aveva perso interesse. Forse non capiva granchè, ma respirava aria buona.
Volodymir si guardò le mani, scoprendole bagnate. Non si era accorto di avere pianto. Indossata la divisa, si era meticolosamente impegnato a spegnere ogni connessione con le emozioni, in guerra bisogna ridurre al minimo il dolore, ancor più l’eco di quello inflitto. Odiava il rigurgito dei ricordi, era pericoloso e attraente, una sirena sulla via dell’abisso. Perlustrare una casa di contadini semidistrutta era un mestiere da zombie, in quel crepuscolo malato, immersi in un silenzio che sapeva di morte e di trincea.
Volodymyr sentì un dolore sordo al centro del petto, il cuore aveva preso a battere a mille. Afferrò il fucile, come per sparare al ricordo che affiorava, alla serata pazzesca in cui la sua vita aveva cominciato a bruciare. Un gruppo di bulli lo aveva pestato a sangue nel locale in cui il suo gruppo di amici era andato a bere, un gesto smargiasso e privo di ragioni, tanto per attirare l’attenzione. Mariya lo portò a casa sua, un attico in cui il cielo si lasciava toccare, e lo tenne fra le braccia. La ragazza piangeva di rabbia, Volodimyr si abbeverava a quella pietà, incredulo.
Fu una strana prima volta, lenta, esasperata, un flusso d’acqua pieno di ostacoli. Indugiavano a lungo nelle pozze prima di scendere al livello successivo. Il suo corpo aveva preso il sopravvento in modo inedito su una mente guardinga, malata di controllo, sopraffatta dalla paura. Sentiva il dolore delle botte, il piacere delle carezze e non chiedeva altro. Mento, chiedevo lei, la vorrei anche adesso, pensò, e col desiderio esplose la vertigine nella mente di Volodymyr, insieme all’urgenza di infrangere quel silenzio da cimitero senza tombe, urlando alla luna che era vivo, che aveva amato, che era stato amato. Fu allora che intravide una mano di donna, le dita spezzate ma aperte contro il cielo, sbucare da un cumulo di macerie. Espulse dal petto un gemito da bestia.
All’improvviso, tutto si animò di una frenesia crudele. I suoi commilitoni avevano scoperto un nemico nella carbonaia.

Vladimyr.

Così ho pensato, basta, me ne vado. Per trentacinque giorni questa frase mi ha spaccato l’anima. Però restavo, avevo paura, era un andarsene senza poter tornare a prima, a mamma, a casa mia, al villaggio in provincia di Volgograd. Senza poter tornare da chi non posso nominare neanche nei pensieri, al mio amore sbagliato, perseguibile, sterile. Un amore che potrebbe costar caro anche a lui, se venisse scoperto, perciò tutti hanno visto con sollievo la mia partenza per il servizio militare. Fosse vero che l’esercito ti cambia, sarebbe la fine della tortura. Cambiamo tutti, ma non in quel senso.
Prima era solo lo strazio della naja, faceva male, ma si sopravviveva. Un giorno invece è arrivata la guerra, all’inizio era solo un camion in cui ammassarci come vitelli. Dopo molte ore e molta polvere, fra scherzi arroganti e rancio schifoso, siamo stati scaricati a Chernobyl. Non sapevamo niente di questa missione speciale. La popolazione non ci accoglieva festante, e la cosa si fece insostenibile quando ci raggiunsero i primi colpi di mortaio. Arkady, che era di origini ucraine, fu il primo a capire che ci stavano facendo accampare vicino alla centrale nucleare. Credo che cominciò da lì tutto quanto. Poi ci spostarono a sud ovest. Arkady era fuori di sé. “Questo cosa c’entra col Donbass? Stiamo andando a Kiev, siamo soli in mezzo all’Ucraina! Non ci vogliono, ci sparano addosso, faremo la fine del topo!”. Venne fucilato. Ordine diretto del generale.
Non fu una buona idea, dentro le nostre teste ci fu un rompete le righe. Ognuno andò dove la sua indole e le sue follie lo portavano, vale tutto se fucili un soldato di ventuno anni. Alcuni stuprarono, saccheggiarono, uccisero come in un videogame. Altri tramarono rivolte, un ragazzo di Mosca impazzì e travolse il generale col carro armato. Io non so più nulla di loro, sono scappato. Mi sono tolto la divisa e, mezzo nudo in un gelo feroce, ho vagato come un lupo nella campagna. Non era veramente importante sopravvivere. La mia vita era tracimata da me.
Sono svenuto, mi ha svegliato una voce femminile e una serie di schiaffi violenti. La realtà mi reclamava, ma io stavo bene lontano, protetto da braccia forti. La seconda volta che mi svegliai ero vicino al camino, in una casa ancora integra, con due occhi puntuti fitti nei miei. “Ti ho dovuto trascinare a peso morto, stupido!” mi disse la donna. Era piccolissima e tonda, tante sfere sovrapposte, gambe corte e capelli castani, con pochissimi fili bianchi. Si intuiva che era anziana, malgrado la pelle levigata aveva la postura stanca e cocciuta delle donne di campagna, di mia madre. Capivo abbastanza l’ucraino, è simile al russo. “Russkiy” le ho detto, avevo paura ma dovevo togliermi il dente. Cominciò a tempestarmi di pugni e a piangere, non smise finchè non si accorse che piangevo anche io, inerte, mormorando “Mamma… mamma…”
Ci siamo raccontati la vita, cogliendo l’essenziale, parole così identiche nelle nostre lingue, disertore, figlio, morte. Mi aveva accolto pensando fossi ucraino. Mi tenne con sé da disertore russo, forse perchè le ricordavo un figlio morto anni prima. Per fortuna non eravamo stati noi soldati ad ammazzarlo, né lei né io lo avremmo sopportato.
“Mi chiamo Nastya”.
“Vladimyr”.
E’ stato bello avere un nome, per darlo a lei.
Per due giorni il mondo si è acquietato. Cibo, lavoro in campagna, la sera poche parole accanto al camino. La sua bontà, la mia serenità inattesa.
Ero in campagna quando ho sentito i fischi e le esplosioni. Mi sono girato verso la casa. Nastya, sulla soglia, mi gridava di nascondermi nella carbonaia. Sono esplose insieme, casa e donna.
Ora stanno venendo a prendermi. Li sento camminare, sento rumori di piedi che spostano macerie e voci roche, amare. Non capiranno. Non importa. Non più.

Lo specchio.

Arrivarono, spingendo il trofeo a calci e pugni, lo addossarono alla parete, spalle allo specchio. Il russo taceva, assente. Volodymyr li attendeva in piedi, il fucile spianato. Dalla breccia aperta dai ricordi fuoriusciva un magma di ira e sofferenza impossibile da nascondere. I commilitoni ammutolirono, Namiorenghicchiò era al conto alla rovescia, sarebbe esploso, era evidente. La scintilla fu il tentativo del comandante di risolvere la crisi con un ordine urlato. “Soldato!” non fece in tempo a completare la frase, Volodymyr con un grido imbracciò il fucile, mirando al comandante. Fu un attimo, l’ombra di un pensiero, una resipiscenza neppure formulata, a impedirgli di premere il grilletto. Ma il conto alla rovescia era giunto allo zero. Si girò verso il muro e sparò ripetutamente sul prigioniero, senza riuscire a fermarsi. Vladimyr scivolò a terra in silenzio, l’espressione sfinita di chi ha corso controvento e non è giunto da nessuna parte. Sulla parete restò lo specchio, intatto, rigato da lunghe scie di sangue. Il riflesso di un uomo esausto, sporco di terra e sangue lo fissava, attraversandolo con lo sguardo vuoto che solo la morte o l’abisso restituiscono. Scansati, sembrava dire, lui dov’è? Senza più rabbia, lentamente, Volodymyr mirò al suo viso incorniciato da volute di legno dorato e, con un colpo solo, mandò in frantumi lo specchio.

(Racconto scritto per il corso di scrittura tenuto da Valeria Viganò)

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