Ti stupisci del mio silenzio, dello sguardo opaco, «è la congiuntivite», dico, e neppure è un pretesto; delle labbra increspate all’ingiù, di un pallore senza luce e senza fard, degli stivali inadatti alla gonna.
È tua arte osservare, abbracciare dettagli, custodire racconti e memorie.
Non sospetti il breve prodigio di aver evocato, forse dissepolto, una me stessa restituita da ere trascorse.
«Sei un archeologo», sussurro. Ormai ti è noto il surrealismo di certo mio frasario, però aggiungo: «Perché ti occupi di cose vecchie… Come me». Ridi, ridiamo, la bolla di sapone della donna che fui torna a svolazzare per la stanza, farfalla fuori stagione; passa davanti alle tue iridi oltremare, così incongrue con il fototipo.
«Lisa dagli occhi blu che non sei altro», ti canzono «con questo indaco e cotanta complessione tu sei a lutto se, dopo le feste, le camicie cifrate su misura ti fanno un filo di difetto?»
Decido di essere per una volta femmina, non Giamburrasca, tacendo il mio pensiero circa le iniziali ricamate sull’oxford – notai e ultrasettantenni risparmiati.
Madame Butterfly, galvanizzata dal vento, volteggia senza posa, invano…
Dopo, in strada, fisso una stria perlacea, come di lumaca, sul palmo sinistro, lungo la cicatrice che mi ricama una seconda linea della vita: ho voluto afferrarla io la bolla, per tenerla un poco, solo mia.
Non è vero che l’hai ignorata.