Luce di febbraio

La città era un continente sul mare. Una terra sospesa e commossa, disperato strapiombo su navi, naufragi e derive di umani.
Il negozio di libri dava sulla strada di fronte, due vetrine educate dopo il lungo tornante.
Arrampicava ansimante sulla collina abitata, incedeva ostinato contro una secolare fatica. Entrò perché aveva bisogno di un luogo appartato, leggere e scrivere a malapena sapeva.
Per scrivere un libro è necessario il ricordo, per ogni ricordo una vita. Ma un uomo non è come un gatto, si muore e si vive soltanto una volta: se il ricordo si è perso per strada, di tutta la vita rimane solo il suo sasso, la terra, un sospiro, o una lastra d’asfalto.
Delle cose più gravi raramente si scrive, e le parole servono a poco a chi non ha almeno un ricordo che possa farsi racconto.
Oltre il bancone solo il librario, nel negozio accogliente lui il solo cliente. Nessuna parola, nessun discorso obbligato. Niente da chiedere o da dovere spiegare, e nessuna domanda. Libri sì, quelli tanti, di scaffale in scaffale, l’intero negozio come una scala infinita.
Scegliere è facile quando si è senza parole: tra tutte le opere basta prendere in mano quella che non ha titolo sulla sua copertina.
A questo punto è già prevedibile tutto, chi legge e chi scrive in questo caso sono la stessa persona, e a quel libro il finale mancava davvero: l’ultima pagina in bianco, riluttante alla sua conclusione.
L’inaspettato accadeva. Anche il libraio era sparito.
Ripose il volume, guardava il mare e il suo azzurro mancante: oltre quei vetri il suo porto. Non si sentiva più solo.
Uscì nella strada, sul marciapiede. Riprese il suo passo di quartiere in quartiere. L’indirizzo l’avrebbe senz’altro trovato.
L’inverno non è sempre spietato, specialmente a febbraio

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