Lucky ha quasi 90 anni e vive da solo. Fuma un pacchetto di sigarette al giorno e nel suo frigo deserto ci sono solo cartoni di latte. Tra una sigaretta e l’altra fa yoga: cinque esercizi ripetuti ciascuno 21 volte. Il fisico è smilzo e, nonostante il fumo e i bicchieri di Bloody Mary che si scola alla sera nel solito pub, ha una salute di ferro. Il suo unico impegno è fare parole crociate, con cui allena la mente.
Di carattere scorbutico e solitario, sembra non aver bisogno di nessuno e di niente. L’attore John Carroll Lynch nella sua prima performance da regista, confeziona un film asciutto e delicato, in cui esplora la vecchiaia e le sue fragilità senza mai scadere in stereotipi. Raccontare la terza e la quarta età evitando manierismi e luoghi comuni non è semplice ma molti cineasti hanno centrato il bersaglio. Da David Lynch (Una storia vera – 1999), che ritroviamo curiosamente nei panni di un amico di Lucky, a Nigel Cole (Calendar Girls – 1998), da Michael Haneke nello struggente Amour del 2012 a Sorrentino con lo splendido Youth del 2015 al recente Ella e John di Virzì.
Il film di Lynch (nessuna parentela con il succitato regista), trova il suo punto di forza nel protagonista, interpretato da uno stupefacente Harry Dean Stanton. Alla sua morte, avvenuta poco dopo le riprese del film, quasi nessuno ricordava chi fosse quel vecchio che prestava magistralmente il suo volto scarno al personaggio di Lucky. Eppure, anche per chi scrive, c’era qualcosa di familiare nel suo sguardo. E, digitando su Google, eccolo lì, 34 anni più giovane nel film di Wim Wenders Paris,Texas (1984). Anche qui il deserto fa da sfondo alle vicende di Lucky: cactus e aridi paesaggi e, insieme, la ricerca ostinata di qualcosa da scoprire per dare senso all’esistenza, anche terminale come quella dell’anziano interprete.
Lucky, un piccolo gioiello del cinema indipendente americano, che commuove e che riesce a coniugare una visione apparentemente cinica, anarchica e agnostica della vita a sentimenti ed emozioni che si credevano sopiti.
Di carattere scorbutico e solitario, sembra non aver bisogno di nessuno e di niente. L’attore John Carroll Lynch nella sua prima performance da regista, confeziona un film asciutto e delicato, in cui esplora la vecchiaia e le sue fragilità senza mai scadere in stereotipi. Raccontare la terza e la quarta età evitando manierismi e luoghi comuni non è semplice ma molti cineasti hanno centrato il bersaglio. Da David Lynch (Una storia vera – 1999), che ritroviamo curiosamente nei panni di un amico di Lucky, a Nigel Cole (Calendar Girls – 1998), da Michael Haneke nello struggente Amour del 2012 a Sorrentino con lo splendido Youth del 2015 al recente Ella e John di Virzì.
Il film di Lynch (nessuna parentela con il succitato regista), trova il suo punto di forza nel protagonista, interpretato da uno stupefacente Harry Dean Stanton. Alla sua morte, avvenuta poco dopo le riprese del film, quasi nessuno ricordava chi fosse quel vecchio che prestava magistralmente il suo volto scarno al personaggio di Lucky. Eppure, anche per chi scrive, c’era qualcosa di familiare nel suo sguardo. E, digitando su Google, eccolo lì, 34 anni più giovane nel film di Wim Wenders Paris,Texas (1984). Anche qui il deserto fa da sfondo alle vicende di Lucky: cactus e aridi paesaggi e, insieme, la ricerca ostinata di qualcosa da scoprire per dare senso all’esistenza, anche terminale come quella dell’anziano interprete.
Lucky, un piccolo gioiello del cinema indipendente americano, che commuove e che riesce a coniugare una visione apparentemente cinica, anarchica e agnostica della vita a sentimenti ed emozioni che si credevano sopiti.
Lucky di John Carroll Lynch (USA 2017)