One, two, three, dabidubde dubidebdubidiba. Qualche urlo di sax, chitarra ben piantata e un galoppo di piano.
Scat e musica. Dalla e Stadio.
Ci spedivano a letto prima della pagina di cronaca.
Bacio, abat-jour, il sinistro rituale della pasticchina anticarie al fuoro, spegni e dormi.
Quel dormi materno, veloce e stizzito, costituiva la suprema istigazione a restare vigili.
Lei aveva voglia di rimanere un po’ sola con papà.
Ma al lunedì noi ci si alzava al buio, pigiama sotto ai piedini.
Filavamo a passi morbidi, intuendo porte socchiuse. Rabbrividendo di freddo e di pericolo.
Rischiavamo cazziatone e castigo per il piacere di riempirci di dabidubde dubideb dubidiba dubideb dubidudiba.
Poi si tornava subito sottocoperta. Piano piano, se avevamo la sensazione di essere passati inosservati. Oppure di corsa, scandendo l’indignazione genitoriale col rumore di piccoli calcagni nudi.
Per anni quel tema irresistibile ha significato il taglio tra il mondo dei grandi e il mondo dei piccoli. Poi un lunedì ci fu un’emergenza. Campo libero, genitori fuori e noi soli. Guadagnai il divano e mi pigliai la prima sbronza di telecomando serale.
Feci accoccolare anche mio fratello piccolo. Il cretino prese sonno quasi all’istante.
Pazienza. Avevamo vinto.
Avevamo scoperto cosa c’era oltre il dabidubde. Non che fosse ‘sto granché, il dopo.
Avevamo assaggiato la caduta misera del piacere del proibito.
So long, Lucio.