Facevano così: di ogni bomba inesplosa o dei rimasugli di polvere da sparo o coi residui chiodi delle pareti crollate, si imbottivano il gilet, o la giacchetta lisa o il maglione bucato.
E poi si lanciavano sotto i carri armati tirando la cordicella e facendosi ordigno umano.
Ci hanno messo settimane, i nazisti, a espugnare il ghetto ormai vuoto di Varsavia.
Settimane.
Ad ammazzare quei pochi rimasti. E manco jel’hanno fatta, perché una parte di questi zeloti è passata nelle fogne ed è uscita nel centro della città per raccontare.
Non si può combattere una persona che sia disposta a morire e che usa se stessa come arma. Il top della gamma dei soldati, per qualsiasi motivo siano tali, è l’indifferenza alla morte.
Puoi avere un esercito organizzato e ben armato, ma l’indifferenza alla morte è incombattibile.
E ho paura.
Perché da una parte c’è questo uso suicida della propaganda, la persuasione su quanto è giusto, sacrosanto, strategico e vincente immolarsi e portarsene dietro più che si può.
E dall’altra uno stadio di ciechi che crede al cronista che racconta la partita, non vedendola. Animati da una confusione giudoclastica su ebreo che è uguale a israeliano, che è uguale a governo israeliano che è la stessa cosa di esercito israeliano che lo sappiamo noi cosa succede perché ce l’ha detto il cronista, depositario della verità: l’ha detta a noi e ora i depositari siamo noi.
E a noi ci piacciono i coraggiosi che osano.
Tira un’aria di accuse giganti, sento arrivare l’accollo di responsabilità tipo l’unzione della peste o la terza guerra mondiale, mi arrivano addosso parole aggressive con molta facilità, la licenza all’invettiva è sport non più estremo, bensì naturale.
E ho paura.
Abbattimento dei ponti e nessun muro possibile.
Il grandangolare mi dice che non ci sono amici.
Il macro mi dice l’orrore e il terrore.
Il 50 millimetri ritrae il qui ed ora: sospesi su un baratro, Petit* ce spiccia casa.