Milano, luglio, 2010. La stanza della bella clinica era semibuia, solo – da uno spiraglio delle tende tirate – s’infilava sottile un raggio di sole, dove la polvere eternamente si agitava; e al di là del tulle bianchiccio si intravedeva, vago, sfuocato e verde, l’agitarsi delle foglie dei platani nel parco privato.
Federico si chinò, tutto lungo quant’era, sul corpo della madre, come un preistorico carnivoro che s’allungasse sulla tremante preda. Olimpia: uno scheletro la cui enorme pancia enfiata sollevava il lenzuolo. E una mano gialla che artigliava il collo ossuto del figlio prediletto:
“succede che muoio prima io, tesoro, prima io del vecchio”.
“succede che lui erediterà da te, e non tu, non noi, da lui”.
“Decenni di noia, di pazienza, di leccate di culo al cretino…”
Un rantolo rabbioso. Di sua madre tutto si poteva dire, ma non che fosse vigliacca. Perdere i soldi era peggio che morire. I nostri soldi, meritati e strameritati.
L’alito della madre sapeva del destino che l’aspettava. Federico inconsciamente si scostò, ma lei lo riagganciò.
“Ha più di novant’anni, ha vissuto come ha voluto, nei suoi comodi da re…” il respiro si affievoliva e tornava, “ora si regge a malapena in piedi, col suo enfisema… ma potrebbe vivere ancora anni. Le piccole avrebbero tutto, sono figlie. E tu, niente, sei solo mio”.
Federico immaginò Gabriele bianco e flebile come una piuma, le mani tremanti. E gli occhietti turchese che senz’altro ancora sprizzavano arroganza.
“Mamma, mai avrei pensato potesse sopravviverti…”
“figlio mio, pensaci. Sei giovane, forte”.
Forte, per dire, pensò il duchino: “ci penso, sì”.
La madre chiuse gli occhi sfinita, appoggiò la testa al cuscino di seta ricamata che si era, con le lenzuola, portato da casa. Si addormentò, respirando piano, i capelli gialli e radi le scendevano sulla camicia da notte di raso nero a grandi fiori, bordata di pizzo écru.
Il figlio la osservava, e pensava, pensava eccome.
Basterebbe un cuscino, sia per lei che per lui. Hanno sempre preferito cuscini di piuma, ambedue. Il re e la regina. Prima lui, poi lei.
Bloccare il respiro dei miei incubi, essere forte, più forte di loro, infine.
Olimpia riaprì gli occhi: “ricordi Missy?”
“So tutto, non parlare, ti stanchi…” e non spaventarmi, poi.
“come quella notte, il precipizio, il gelo, la pelliccia…”
“e la cocaina per l’idiota… ero piccolo, ma ho capito, sai? Sei stata in gamba, mamma”.
Federico ricordava benissimo.
“sei mio figlio, hai coraggio, sei capace di…”
“tutto, mamma”.
Il duchino nasuto si chiuse dietro le spalle la porta in mogano con cifre dorate, dietro la quale sua madre stava morendo. Era pronto per andare a ucciderne il ricco secondo marito. Già, sposato dopo la morte del suo di padre, il duca spiantato, quello buono solo per il titolo. Uccidere Gabriele era urgente: se Olimpia avesse mollato per prima, lui, Federico, il povero disprezzato, unico brutto nella banda dei belli, nulla avrebbe ereditato. Nulla avrebbe stretto fra le mani. Nulla gli sarebbe spettato di diritto.