Duras. Cinque lettere per un’impronta inconfondibile nel cammino della letteratura. Cinque lettere per una scrittrice, sceneggiatrice, regista, intellettuale, attivista politica. Il novecento senza di lei avrebbe un vuoto di idee estreme, coraggio doloroso, impegno incondizionato e provocazione linguistica. Ma Sandra Petrignani sceglie Marguerite ( Nenè quando era piccola) per il titolo della biografia romanzata o del romanzo biografico, scegliete voi. Il ritratto che ne fa non è un ritratto, ma racconto di un’anima che vaga nella scrittura e lascia il segno. Sceglie di non scindere tra donna e autrice perché mai sono state separate. È un libro profondo il suo, usiamola questa parolaccia, perché scava negli abissi di una donna dilaniata, senza mezze misure, esagerata negli amori e nell’autodistruzione ma finissima, nel suo senso di assoluto, interprete dell’umano. Margueritedi Petrignani fa capire quali tormenti e slanci ci siano dentro uno scrittore, paradossi e ferite, concentrazione totale, la vita che si riversa torrenziale nell’opera, nel caso di Duras è un’esondazione che rompe gli argini dell’esistenza. Mai Duras è stata più viva dopo essere morta, corrotta dall’alcol, come in queste pagine, Petrignani ci dà il suo respiro, la rianima nelle passioni, ricrea l’Indocina e Parigi, il Novecento.
La Rivista Intelligente è felice di offrire ai propri lettori e ai lettori tutti un’anticipazione di alcuni brani tratti da Marguerite, in uscita per Neri Pozza il 4 aprile 2014, festeggiando con Sandra Petrignani il centenario della nascita di Marguerite Duras.
(Valeria Viganò)
Questo le piace di Gérard, la sua capacità di riportarla sulla terra, nel presente, con un gesto, una frase. Non è un intellettuale. O meglio sì, lo è, ma di un tipo completamente differente dagli uomini che ha amato fin lì. Jarlot non spacca il capello in quattro, non si perde in discussioni infinite, è indifferente ai grandi temi, guarda le cose dall’alto con un sorrisetto beffardo. È di carne, prima che di testa. La sua esperienza parte e ritorna alla carne. È un ribelle ai codici di qualsiasi genere, anche quelli interni al gruppo d’appartenenza. Un dandy. Marguerite è affascinata dalla sua leggerezza e dalla sua generosità, e dalla facilità con cui passa dalla scrittura di una sceneggiatura a quella di un romanzo a quella di un articolo di giornale, e in questo caso lo fa con una libertà che la diverte, fregandosene della verità di quanto va raccontando a vantaggio dell’effetto da produrre.
«Sei un immorale» lo rimprovera ridendo. «Sono un animale» risponde lui. E: «Immagino cosa penseranno di me i tuoi serissimi amici marxisti…»
«Il guaio è che hai affascinato anche loro. Non c’è più una sponda ad arginarti!». Dice “marxisti” come direbbe “freudiani”, “lacaniani”, non capisce cosa rappresenta per loro il marxismo: qualcosa che viene prima di tutto, non solo una scelta di parte, ma una patria. E un sogno, una speranza di rigenerazione collettiva, unica possibilità di sopravvivere alla tragedia della guerra, all’olocausto. All’inizio non era stata solo speranza, era una certezza. E poi un’illusione.
Si è messa a scrivere in un altro modo da quando lo conosce, un piccolo romanzo che vuole intitolare come una partitura, Moderato cantabile, in cui intende seguire il desiderio amoroso fino alle sue estreme conseguenze, ma soprattutto vuole comporlo come un pezzo musicale, con la sinuosità di un moto ondoso, interiore. Medita molto sulla scrittura in quei giorni. Tutto ciò che ha pubblicato fino ad allora le sembra troppo tradizionale. È suggestionata dalle scoperte di Robbe-Grillet, di Sarraute, di Butor, di Simon. In parte sente che hanno ragione loro, il romanzo deve rinnovarsi. E le piacerebbe ottenere il permesso dal suo editore, Gallimard, di pubblicare quel nuovo libricino con Les Éditions de Minuit.(…) che ora pubblica gli autori per lei più interessanti, Beckett, Bataille, Blanchot. Ah, quanto le piacerebbe figurare in quel catalogo con Moderato, il testo della sua svolta letteraria, che – tanto – avrà il solito pubblico esiguo, perché con lei nemmeno Gallimard riesce a fare il miracolo di superare le cinquemila copie. Non si chiama mica de Beauvoir o Sagan. Lei è Duras! Le piace come la parola del suo nome si forma dentro la bocca costringendo prima le labbra nell’accenno d’un bacio, e poi le allarga in un abbozzo di sorriso mentre la erre si arrota in fondo al palato e la lingua si appoggia ai denti invitando al silenzio. Quante cose succedono in una parola così breve. Quanto sono importanti le parole quando sono precise. E com’è importante lo sguardo sulle cose quando si scrive. Ha scritto in prima persona, ha scritto in terza persona. Deve scrivere come in uno specchio, guardandosi vivere. Lo farà a ogni costo, anche se Robert Antelme e Dionys Mascolo continueranno a bacchettarla sulle dita, a scuoterle l’indice davanti al naso, a romperle le scatole con le loro critiche o la loro condiscendenza. Ma è il loro modo di stare al mondo, non ci si può fare niente. E il mondo è diviso in uomini e donne, e lei è una donna. Non ci si è messo anche Sartre a dirle che scrive male respingendo un suo articolo critico su Le mani sporche per Les Temps Modernes e invitandola a imparare da Simone de Beauvoir, che è «davvero di prim’ordine»? Certo anche Simone è una donna, ma una donna di potere, quindi quasi un uomo.
«Mi scusi, Jean-Paul, non ho ricevuto una buona educazione io, e me ne frego di Beauvoir» gli ha risposto.
A mezzanotte Lacan vuole vederla, vuole parlarle di Lol in un caffè del quartiere perché vuole scriverne. Vuole innalzare un monumento a Marguerite Duras. Margherite scende, lo raggiunge nel bar, inquieta. Cosa può dirgli di Lol oltre quello che ha scritto? Si stringe nel cappotto, si siede. Il maestro la guarda attraverso le lenti. Sorride, appoggia il sigaro sul portacenere, intreccia le mani sul tavolino, sorride. «Conosce il gioco della morra cinese: il sasso spunta le forbici, le forbici tagliano la carta, la carta incarta il sasso?» le chiede.
«Ma…sì».
«Allora le spiego: lol sono ali di carta, v le forbici, stein la pietra, naturalmente».
Lei non dice niente.
«Dimenticavo, la o di lol: una bocca aperta nello stupore, nel rapimento». Le agita l’indice sotto il naso.
«L’incantatrice è Margherite Duras e noi gli incantati, i rapiti» ride, gonfiando le guance, un riso che gli resta dentro senza esplodere. Passano minuti silenziosi in cui lui fuma il sigaro, lei le sue Gitanes.
«Insomma» riprende avvicinandosi attraverso il tavolino, «come ha prodotto il suo inconscio questa Lol, da dove è venuta? Ne ha idea? Giocava alla morra da bambina?».
Sono vecchia e sola, pensa Marguerite.
«Grido. Amerò chiunque ascolterà questo grido». È ancora innamorata di quella frase. Anche lei – come l’artista misterioso di Les mains negative – ha impresso e dipinto la forma delle mani nella roccia; la sua roccia sono i fogli di carta.
Sono una cretina, sono una pazza. Un’alcolizzata. Nemmeno. Sono un’alcolizzata che non può bere se no muore. Sono una stronza, come dice Yann quando si arrabbia. Yann Lemée. Yann L’Amato. È un gioco di parole il suo nome. Come la menthe anglaise/l’amante anglaise. Gliel’ha cambiato, ora è Yann Andréa; Andréa è il nome di battesimo della madre. «Questo nome è indimenticabile» gli ha detto. Lui ha accettato, come accetta tutto.
Marguerite, di Sandra Petrignani. ISBN 978-88-545-0739-5
©2014 Neri Pozza Editore. Pagine 272, euro 16,00
Seconda immagine di Valeria Viganò