Mi chiamo Marina, Mari per gli amici. Era il giorno di Natale, uno degli ultimi del Novecento. Non uno degli ultimissimi. Voglio dire, non è che mancasse una manciata di secondi al Duemila. Insomma, senza stare a sottilizzare troppo diciamo che in rapporto all’eternità eravamo prossimi al nuovo millennio ed io avevo circa 7 anni.
Avevo scartato i miei regali e subito ero corsa in cameretta a giocare. Mi trovavo quindi seduta sulla seggiolina di vimini sotto la cui gamba anteriore sinistra avevo collocato lo sterno di Adelina’ “la bambola che cammina, beve il latte e dice grazie mamma”. La quale Adelina ora, grazie alla mia sapiente azione, vomitava la terza poppata, sbatteva i piedi in una pozza biancastra e pronunciava frasi che definirei fuori contesto.
Fu in quel momento che la porta della cameretta si spalancò e i miei genitori irruppero a piè pari. Fermai il gioco e li guardai. I piedi, dico. Li guardai da destra a sinistra, poi da sinistra a destra. Alternati appaiati: piede destro mamma, piede sinistro papà e viceversa. Alternati spaiati: piede sinistro mamma, piede sinistro papi e viceversa. Ma non alzare lo sguardo su di loro non fu sufficiente a non sentire il loro su di me. Non che non ci fossi abituata, ma questa volta accadde qualcosa di tremendo, qualcosa che a loro dovette sembrare una magnifica idea.
«Se tu ci volessi bene non saresti così»
«Così come?»
«Così!»
E chiusero la porta lasciandomi sola, stordita da un’accusa che la mia esperienza di settenne non riuscì collocare in nessun angolo della mente. Mi accasciai sul bracciolo, sbilanciando tutto il peso a carico della gamba anteriore sinistra della poltroncina di vimini, sullo sterno di Adelina che rantolò: «Gggggggrrazzie mmmmmmaamma».
Non sapendo come contenere quella vertigine di dolore, mi persuasi che la causa di tutto fosse la mia faccia, che non avevo fatto la faccia giusta nel ricevere il regalo. Mi imputai una colpa mimica, un’insufficienza espressiva, una carenza come avrebbe detto il pediatra, una lacuna come avrebbe detto la signora maestra.
Ora, nel mio sussidiario c’erano scritte della poesie che nei casi più difficili cominciavano con «Ah!». Mi persuasi che iniziare una frase con Ah! corrispondesse al codice più alto dell’umano sentire.
Così mi preparai un discorso e la sera, finito Carosello, quando ormai mia madre mi aveva dato la buonanotte e aveva acceso il lanternino dell’angioletto di ceramica appeso alla parete, ed era tornata di là da mio padre e tutti e due si erano sistemati comodi in poltrona davanti al televisore, io entrai in salotto decisa a spiegar loro che sì che gli volevo bene! E che, per provarglielo, non gli avrei più voluto bene per due giorni in modo che potessero notare la differenza. Entrai, allargai le braccia come pensavo andasse fatto quando si mette nelle mani degli altri la propria vita e dissi: «Ah!».
La stanza piombò nel silenzio. Mio padre tacque, mia madre tacque. Anche Nicoletta Orsomando tacque, appoggiò il foglio dei programmi, si tolse gli occhiali e tacque. Però di quest’ultima cosa non sono sicura: è passato tanto tempo!
Mi ero sistemata proprio di fronte al cono della lampada e con la luce puntata negli occhi vidi il silenzio galleggiare nella stanza: un cerchio d’oro nel nero. Rimasi a guardarlo, un secondo, due, tre. Poi percepii, dall’altra parte della cortina nera, un mutamento di ritmo nei respiri. Capii che non potevo rimandare oltre e iniziai a parlare.
«…Ah perché io… Ah perché voi… Ah perché noi… ah qui, ah là, ah su, ah giù…».
Finché volli dire quella cosa dei due giorni. Stavo per dire “Io per due giorni non vi vorrò più bene” quando mi balenò che il pediatra non dice mai giorni, dice “dì'”: «Un cucchiaio di sciroppo due volte al dì». Così dice il pediatra, e nessuno mai risponde: non è vero! E dissi: «Non vi vorrò più bene per due dì!».
Per dar forza alla frase allargai le braccia e aggiunsi: «Ah…».
Per dargli forma riprodussi a memoria i gesti che fa la maestra quando spiega, le pause che fa il pediatra quando pensa, l’afflato di Bertorelli Letizia che ha preso 10 di poesia. E per dargli vita ci misi ─ di nascosto ─ la verità dei miei sette anni. Tant’è che ascoltarono fino in fondo senza interrompermi.
Quando ebbi finito e mi spostai dal cono di luce, la cortina nera e gialla davanti a me sparì e li vidi: sorridevano. Papà sorrideva, mamma sorrideva. Anche Nicoletta Orsomando sorrideva. Ora, su questa ultima cosa non voglio insistere, però…
Mia madre si alzò dalla poltrona per venirmi incontro e fu in quel momento che pronunciò quella parola nuova, mai sentita prima, di cui tuttavia colsi immediatamente il significato. Si tratta di una parola che i grandi utilizzano per indicare chi riesce a dimostrare agli altri la propria sincerità. Si chinò su di me, mi prese tra le sue braccia e sussurrò: «Commediante!».
Mari Christmas, parte seconda
Mari Christmas, parte terza
Mari Christmas, parte quarta
Mari Christmas, parte quinta
Mari Christmas, parte sesta
Mari Christmas, parte ultima