___Se parlo
inciampo in un mucchio
di parole logore
___Se penso
trovo una traccia
ambigua e oscura
che mi precede
___Se amo
divento nettare
per la bocca dell’ape
seme in grembo alla terra
granello di sabbia nella conchiglia
lapillo nel cratere del vulcano
ciottolo che in acqua sprofonda
con tanti cerchi a perdersi:
Maria De Lorenzo letta da Anna Toscano
Maria De Lorenzo ha scritto poesie che sono realmente ciò che il titolo di una raccolta richiama, un reliquiario. Sono contenitori, scatole, cofanetti, bauli, che contengono frammenti di un amore profondo verso l’umanità. I testi di De Lorenzo, non hanno un dove e un quando precisato, raramente vi è traccia di una scenografia in cui collocare la scena, ma vi sono oggetti che quasi sbucano all’improvviso, netti e definiti, a parlare di sé: “raccolgo cuori infranti / raccolgo favole e dico / che ho amato tanto / specie la stirpe umana”. Sembra di scorgere la poetessa seduta “al banco della vita”, intenta a osservare, meditare, soffrire sulla condizione dell’umanità, sul destino riservato al cuore dell’uomo. E sono le parole le reliquie preferite, prescelte, sono le parole, citate e rincorse di lirica in lirica, che soccorrono e sostengono: appigli e, al contempo, nutrimenti per sopportare i “saldi d’utopia” “nella gabbia del cuore”. La parola è il filo, talvolta il laccio, che tiene insieme il senso e il significato dell’esistenza umana, qualche volta in queste liriche è il “gomitolo” che spiega il languore del dipanare. Il groviglio di affetti e confessioni rinchiuso nel reliquario palpita di parole vive, parole parlate o pensate a inseguire o instaurare tracce per divenire “ciottolo che in acqua sprofonda”.
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Maria De Lorenzo, Reliquiario d’amore”, 2002, Milano, Scheiwiller