Materasso senz’anima

 

Ore quattro del mattino, aveva parlato da sola così a lungo da perdere la voce. Aveva imprecato, si era interrogata, aveva urlato sottovoce. Respirava singhiozzando, un impercettibile lamento accompagnava l’aria, e il cuore era scolpito in petto. L’armonia si era inceppata, il corpo si era sgangherato in parti orfane e conflittuali. Le mani, per esempio, si intrecciavano e si torcevano, tutt’uno con gli avambracci, nella pantomima paesana cui ricorreva in segreto. I piedi andavano e venivano lungo vie di fuga a vicolo cieco, mentre il resto del corpo seguiva per dovere, perplesso.
Già, il suo corpo. Un voluminoso inciampo, per sempre separato dai pensieri e dagli slanci da un soffio di esitazione. Si inginocchiò accanto al letto, tuffando viso e braccia fra le coperte sfatte, abbracciando pieghe o calando deboli pugni sul cuscino che prende la forma del corpo e poi dimentica, quieto, non appena ti allontani. I materassi di lana della nonna si lasciavano incidere dai corpi. Toccandoli a occhi chiusi una mano attenta poteva ritrovare la sagoma di chi ci aveva dormito, seguire la sinuosità della schiena e indovinare la curva delle natiche. La tecnologia del benessere, invece, aveva creato il materiale perfetto, incapace di ricordo e di scalfittura, e lo aveva chiamato Memory. Si rese conto dell’inutilità di ogni gesto o dramma. La realtà era un materasso refrattario e impersonale, capace di illusoria empatia col dolore, ma miracoloso nel cancellare ogni traccia del suo passaggio. Esigeva disperazione asciutta o gesti estremi, come dilaniare e sbranare. Lei non aveva energie sufficienti. Chi mai ne aveva?
L’onda di ritorno si chiuse sul disastro e la superficie della sua esistenza tornò piana, opaca. Lascia che io abbia peso, chiese al cuscino, solo ancora un po’.

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