Mi sfreccia davanti con una biciclettina, curva e torna indietro, senza fermarsi mai, senza mai poggiare i piedi a terra. Ha tre anni, solo tre anni. “Voglio una moto cento cavalli, che quando vai gli insetti e le cavallette si schiacciano sopra col vento” dice frasi di questo tipo, sa già cosa sono i cavalli della moto, conosce insetti e cavallette. Va sott’acqua, si tuffa dal trampolino, pattina e va sullo skateboard. Si chiama Leone e non è mio figlio. Mia figlia invece è quella laggiù, buttata sul divano a mangiare un Tegolino. Tre anni anche lei.
Ciuccio e pannolino. “Io tosso molto”, “dammi la pigiama”, dice frasi così lei, commettendo gli stessi errori di lingua della tata moldava.
Non è mio figlio quel bambino prodigio che parla italiano, inglese e francese, non è mio figlio quel bambino erudito che discorre di pianeti, non è mio figlio quell’atleta scattante, ma lo è questo piccolo ammasso di grasso che se metto sul triciclo rimane immobile perché non capisce come si fa a spingere i pedali, lo è questo cucciolo di pachiderma disteso sul divano che, senza distogliere gli occhi dalla tv, ordina alla tata: “Altro Tegolino.”