Tempi duri, per la sinistra. Anzi, tempi durissimi per tutti, in Italia e non solo. Le brutte notizie arrivano a vagonate da tutti gli angoli del mondo, la sfiducia che si respira nell’aria è di quelle toste, molto difficile da mandar via con un buon cappuccino, sia pure accompagnato dal canonico cornetto, con crema o senza.
E’ in questi momenti che conviene prendersi una pausa, approfittarne per far girare il cervello o quel che ne resta in modo diverso dal solito, dalle solite considerazioni assennate che, stringi stringi, ci hanno portato dove ci troviamo adesso: non in un bel posto, diciamo la verità.
Magari si può salire su un autobus, senza una meta precisa dove andare, che a pensarci è anche una bella metafora del presente.
Una volta sull’autobus, uno di quelli sgarrupati che l’ATAC, icona romana dello sfacelo imperante, si ostina a mantenere in servizio, sballottati tra buche, sampietrini divelti, percorsi perennemente ostruiti da incivili di tutte le età, mezzi della nettezza urbana attivi a tutte le ore senza apparente costrutto e allagamenti stagionali, si può finalmente cogliere qualche barlume di verità.
Facce incazzate, frasi smozzicate, occhiate truci rivolte verso i finestrini, fragile frontiera di una realtà insopportabile, hanno acceso in me la fiammella di un’idea. Un’idea di sinistra, la più di sinistra che sia concepibile nell’allucinato presente.
Cercherò di chiarirla, prima di tutti a me stesso, con la più rigorosa oggettività possibile.
In Italia, come in molte altre parti del mondo, ognuna delle quali con le peculiarità di pertinenza, la crisi del capitalismo ha portato in pochi anni il confronto politico su due nuove sponde piuttosto precise, lontane dalle vecchie categorie politiche tradizionali: da un lato, chi crede ancora che le nazioni, gli stati possano crescere e superare le crisi con lo strumento condiviso delle riforme. Dall’altro chi pensa che sia tutto inutile e che la priorità sia il disfacimento sistematico di quanto ancora in piedi, in vista di una rinascita futura.
La seconda scuola di pensiero non mi convince affatto. Soprattutto perché è evidente che dietro gli intenti demolitori non ci sia alcuna idea concreta, nessuna visione progettuale minimamente costruttiva.
Dunque il problema consiste, tornando sull’autobus, nel convincere la maggioranza disillusa e sconfortata che i momenti difficili si superano non abbandonandosi al cupio dissolvi ma rimboccandosi maniche e neuroni.
Ma c’è bisogno, ecco la fiammella, di una scossa emotiva robusta e salutare.
La forza politica che, in Italia, rappresenta la prima delle due tendenze descritte, è il Partito Democratico. L’altra è evidentemente il Movimento a cinque stelle, rinforzato nel suo cammino da tutte le componenti pronte a dargli manforte, impudicamente indifferenti alla propria nominale collocazione cromatica.
L’autobus mi sussurra, in un linguaggio apparentemente ermetico, che il Partito Democratico abbia perso, e per sua grandissima colpa, in modo irrimediabile la fiducia della maggioranza degli italiani. E che un gran numero di essi sarebbe pronto ad accogliere una proposta di centrosinistra fresca, moderna, che respinga colpo su colpo le istanze nichiliste della controparte. Ricca sì di appeal irrazionale, come è caratteristica di tutti gli incantatori di serpenti, ma sprovvista di soluzioni reali e palesemente inadatta a qualunque esercizio di governo.
Dunque ritengo, da vecchio, irriducibile sostenitore della democrazia, che il Partito Democratico abbia il dovere di compiere un atto di coraggio: da una parte vada chi esercita insopportabilmente la fronda interna ormai da anni. All’altra parte tocchi la responsabilità, non lieve, di dare vita a una nuova formazione finalmente libera di proporre all’elettorato la sua politica con chiarezza, senza logoranti conflitti interni.
Sono ben conscio dei rischi che questo comporti, per l’ala progressista ed innovatrice italiana. Ma sono anche convinto che sia la cosa giusta da fare.
Me lo ha detto l’autobus.