Va a piedi nudi per le favelas, chi è più furbo vince una risata da mettersi in faccia. Poco controllo, un padre chissà dove e una madre appena più che bambina, e lì bambini non si rimane abbastanza. Finché dura si fanno aquiloni con pezzi di legno sperso e carta straccia. A che serve andare a scuola, se si impara già tutto per strada? Ci andò per forza, fino a che un giorno in quell’istituto ci rimase chiuso dentro. Almeno si mangia: patatine fritte e televisione.
Erano venute già due famiglie, prima una poi l’altra, a prenderlo e portarlo in una casa vera. Tutte e due lo avevano riportato indietro, all’orfanatrofio, come merce avariata. Poi gli dissero che venivano due signori dall’altra parte del mondo, da dopo l’Oceano, che è quella cosa grande e azzurra che si vede laggiù lontana e non finisce mai. Sarebbero stati un po’ con lui, perciò almeno due parole di italiano bisognava impararle. Arrivano domani. Ma sì, tanto vale provarci, anche se non funzionerà nemmeno stavolta: chi vuoi che se lo prenda un ragazzino che ha già nove anni?
«Come ti chiami?» gli chiede lei.
«Mi chiamo Josè»
«Io mi chiamo Flavia, e lui è Luca. Ma è meglio se ci chiami mamma e papà».
Poi sono partiti tutti e tre, fino a dopo l’Oceano, che è quella cosa che si vede là sotto e non finisce mai. Non l’hanno rimandato indietro. Forse non era poi così avariato. Vanno avanti in un tre per due senza data di scadenza.
N.d.A. I nomi sono inventati, ma la storia è tutta vera.