Per ragioni matrimoniali mi trovai a frequentare, in un lontano passato, il cuore dei docenti di una nascente facoltà umanistica, ora molto importante.
La facoltà, non essendo esistente, e necessitando però di docenti adeguati, li cercò nelle specializzazioni più simili.
Che successe?
I docenti che per primi si insediarono (maschi, ovvio) in questa nuova facoltà vi trascinarono, senza molta resistenza ricordo, le loro mogli.
Essendo la facoltà nascente, i docenti giovani e le studentesse altrettanto, cominciò che qua e là sbocciassero i primi amori tra corpo insegnante e corpo apprendente, nella vera accezione di entrambi i termini.
Assicurate a una solida cattedra le ormai ex-mogli, i docenti fondatori impalmarono e dotarono le seconde di fede al dito e ruolo assicurato.
Essendo una facoltà che attirava sciami di giovani femmine pericolose (non solo per il loro ruolo nel lavoro futuro), il fronte delle seconde mogli si mosse guardingo e scaltro cominciando col selezionare collaboratrici poco attraenti, per sventare qualsiasi possibilità di rischio nei confronti dei nuovi mariti e contemporaneamente meno intelligenti per non sfigurare loro stesse.
Mi trovai a pensare poi che se il criterio di selezione di queste ricercatrici, una volta passate di ruolo, avesse ricalcato il modo col quale loro stesse erano state scelte, nel giro di vent’anni si sarebbe scesi a quel livello così ben indicato da Riccardo Pazzaglia in quella memorabile e irripetibile trasmissione notturna.
Per fortuna vent’anni dopo mia figlia non fu ammaliata da questo tipo di studi, migrò verso nazioni dove meritocrazia significa “concezione per cui debbono essere conferiti riconoscimenti di ordine morale o materiale (successo negli studi, responsabilità cariche direttive, cariche pubbliche ecc) soltanto in rapporto ai meriti individuali”.
Comunque i fatti si svolsero anni e anni fa, ora atenei dove i docenti rientrano in un unico stato di famiglia non esistono più.
Si avanza per meriti stretti… stretti fino al quarto grado.