Metro A, fermata Termini. Si aprono le porte scorrevoli, pericolose come tagliole per un animale già ferito dalla giungla metropolitana. Sguscio dentro, posti a sedere non ce ne sono. Passeggeri vitrei. Avventori di mezzi pubblici traballanti. Occhi fissi al cellulare ignorano il mio tutore al ginocchio sinistro.
Scorro volti, fogge e mescolanze di colori. Indovino nazionalità.
Due commentano: «Me parono tutti uguali ‘sti cinesi!».
No.
I cinesi a Roma sanno d’aglio, quando la sera a capo chino prendono il notturno. I giapponesi sono salati, tra loro si chiamano faccia di soia. Gli indiani lasciano scie al curry e miele.
Mi gingillo così, per non sentire il ginocchio che stride più dei freni della Metro. Un signore di indefinibile età over straborda dalla seduta.
«Che s’è fatta male?»
«Sì, sono inciampata su un marciapiede».
«E noi je pagamo pure l’ICI e l’ImUrtacci loro». Ride compiaciuto, ma sposta lo sguardo. Italiane piene di ansia e diffidenza, urlano negli auricolari:
«Nooo, me devi di’ ‘ndo vai. Passo io a prendete. Co’ Zia».
Computo tristezze, mentre qualcosa mi strattona leggermente l’orlo della gonna. Un soldino di bambina mi indica un posto occupato da una bella signora color ambra scura.
Indiani, bengalesi?
La donna è seduta, la pancia arrotondata da pochi mesi di gravidanza. Il giovane marito la sorveglia sorridente in piedi e tiene una mano del soldino di bimba.
«Tu siede, dai»
«No. No. Non si alzi. Grazie»
«No, io no alza. Tu siede su me. Dove c’è posto per uno – si accarezza la pancia – c’è posto per due!»
Signora, siamo in Occidente!, penso.
Occidente? Qua, oggi, è tutto un unico, semplice accidente.
Mi siedo sulle sue ginocchia. Lo scricciolo di bimba poggia le piccole dita sulla gamba sana e si accoccola in braccio.
Lui si aggiusta nella calca per stare davanti a tutte e tre, anzi, tutti e quattro, proteggendo questo improvviso risció metropolitano.
Curry, zafferano e miele e biciclette sgargianti con almeno tre sellini e altrettanti umani si fanno avanti tra il caos e lo smog di Bombay.
Chiudo gli occhi. Oggi il Metró è Madre India.
Immagine di Stefania Trifoni