La telefonata di Maria arriva mentre preparo la colazione.
«È ricoverato, lo operano domani, parti per favore».
Mio padre è stato bambino durante la guerra. «Mi portavano in carrozzina sotto le bombe» dice quando ha il timore che le attenzioni nei suoi confronti si stiano affievolendo, così le ravviva facendo leva sulla compassione, dovuta, per un credito con la vita vantato e mai riscosso.
Sesto figlio in una famiglia in cui ogni ragionamento era declinato al maschile, cinque sorelle più grandi, una madre dedita alle faccende domestiche, senza grilli per la testa, un padre maschio e patriarca. Lo immagino la domenica in chiesa seduto tra la mamma e il papà ad ascoltare un sacerdote che racconta di una donna cristiana, pietra fondante della famiglia, sottomessa a un marito che porta i soldi a casa.
L’eterosessualità tradotta nella definizione dei ruoli ben distinti tra uomo e donna: gonne servizievoli e calzoni sporchi di lavoro. Immagino l’orgoglio di un padre per i primi calci del figlio a un pallone. I pantaloni lunghi che sostituiscono quelli corti quando diventa uomo. La timidezza per i primi amori, ma l’inadeguatezza a sussurrare l’affetto.
Ho provato più volte, con difficoltà, a ricostruire la sua storia, immaginando una vita che non mi è stata raccontata. Trovo una giustificazione al fallimento del nostro rapporto ponendo lui al centro di un universo che non sarebbe mai potuto essere così “perfetto” modificando le pedine sulla scacchiera: da figlio maschio unico e prediletto a padre di un omosessuale.
Faccio di questa supposizione una certezza, perché sarebbe ancor più doloroso ricercare e scoprire una diversa motivazione alla sua incapacità di comprendermi. Non lo vedo da sei anni, da quando è morta mia madre. Ci sentiamo raramente, solo per le feste e senza avere buone ragioni per metter su una maschera e trattenerci nella conversazione.
Nel vagone resto solo. È notte e l’interruttore sopra il sedile accende una piccola biglia di luce, sufficiente per guardare la foto che Maria ha allegato all’invito a rientrare a casa. È in bianco e nero e lui mi tiene tra le gambe. Sembra alto e forte, avevo sette anni. Abbiamo gli stessi occhi e le nostre vene sporgono sulla pelle disegnando medesime traiettorie; lo sguardo identico su un abbraccio che non si è mai stretto abbastanza.
È un tramonto di settembre, al mare, sulla spiaggia ormai deserta, con i piedi che oppongono resistenza alla risacca. È l’anno in cui racconta di avermi insegnato a nuotare, mentre a me resta il vago ricordo di aver imparato da solo e la colpa di aver preferito la danza al gioco del calcio. La colpevolezza è scritta nella mia natura e nel mio destino.
Maria mi aspetta all’ingresso dell’ospedale. «Lo hanno già portato in sala operatoria».
«Chi c’è?» le chiedo. Non è sorpresa dalla domanda, ma mi guarda preoccupata. «Ci sono tutti, cerca di essere comprensivo».
Saluto, ma non sento il bisogno di fare altro, di dilungarmi nel fornire risposte che non meritano il sacrificio di un’interrogazione.
«Papà potrebbe non reggere all’operazione».
Mi siedo in disparte. Leggo un libro per distrarmi dai pensieri e dai commenti che riempiono la sala e l’attesa logorante, per evitare che le ombre sul mio viso reagiscano all’incomprensione trasformandosi in un ghigno. Qualcuno ha lasciato sulla sedia accanto un volantino che inneggia alla “famiglia tradizionale”, lo accartoccio e lo getto nel cestino. Ne ho abbastanza delle tradizioni.
L’operazione è riuscita e mio padre è vivo. Dorme e sorride nel sonno, tramortito dall’ anestesia. La sua stanza è assediata dalle sorelle che accorate attendono il suo risveglio: lo portano in carrozzina sotto le bombe. È al centro del suo universo e io ne resto fuori. Prima di andare gli lascio un messaggio scritto sul margine della foto: «Mi hai insegnato a nuotare».