Mistero napoletano

Era un vicolo cieco come tanti, un angusto retropalco della Galleria Umberto con cornicioni e bugnati posticci insudiciati dalla penombra. Qui avevano la loro tavola calda le due vecchiette. Papà mi ci portava qualche volta. L’antro era rischiarato dal neon sulle pietanze nella vetrina del bancone, rossi vermigli e verdi tumidi, colori tanto vivi quanto innaturali, come quelli dei santi di cera distesi nelle teche sotto gli altari.

Un odore casalingo, che sapeva di cavolo e sudore, scollava la carta dalle pareti, impregnava il marmo dei tavoli, si perdeva nel sapore asprigno del vino che le vecchiette servivano in caraffe trasparenti non appena il cliente aveva preso posto.

Erano brutte. La più giovane aveva capelli crespi legati sulla nuca, con pennacchi ribelli sulle spalle e rideva con gli occhi. L’altra si risparmiava, mostrandosi poco, e, quando era il momento di andare via, ci salutava con una vivacità che tradiva lo sforzo. Entrambe piccole, tarchiate, ciabattavano intorno ai clienti con una grazia che faceva dimenticare la deformità dei corpi.

Sembravano uscite da un “cunto” di Basile. Cercavo d’immaginare sulle loro facce i segni di una giovinezza lontana o le tracce dell’invecchiamento. Erano nate così. Due maschere. Ma cucinavano bene ed erano soprattutto assai gentili.

A distanza di tanti anni resta ancora il mistero di quella mostruosità, di quell’ibrido di bruttezza e buona creanza. La sola spiegazione è che un tempo fossero due ninfe, o due sirene, punite da una divinità invidiosa, e che tanta gentilezza fosse la sola virtù sopravvissuta alla metamorfosi, o il pegno da pagare per tornare un giorno a essere giovani e belle.

 

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