Fino a tre (Firrao, Bavassano, Cavagnaro) si può parlare di recensioni con punti di vista diversi. Ma al quarto intervento vuol dire che si apre un dibattito. Spontaneo: non come quello che fa esclamare Fantozzi “No, il dibattito no” dopo la proiezione al cineforum de “La corazzata Potëmkin”. Spontaneo come quelli che nascono in questi giorni nei luoghi più diversi dove si incontra un gruppo di amici: un fenomeno sociale e culturale prima ancora che una discussione su un film. Simone Lorenzati, dunque non è “arrivato tardi” come teme; spiega bene , invece, perché “Il sol dell’Avvenire”, al di là del valore filmico fa “pensare e parlare”. “larivistaintelligente” lo ringrazia per questo e apre il suo spazio al (sì, sfidiamo il tabù) dibattito: cioè a chi vuole raccontare qui i pensieri che gli son venuti guadando questo film. (La redazione) – PS – Chiediamo scusa. “No, il dibattito no” non lo dice Fantozzi dopo “La corazzata Potëmkin“. Lo dice proprio Moretti nel suo primo film “Io sono un autarchico”. Sarebbe facile correggere l’errore; non lo facciamo. Consideratelo un nostro piccolo contributo alla fantasiosa magia del cinema che domina ne “Il sol dell’Avvenire”.
Sono arrivato tardi.
Sono arrivato tardi per una recensione de Il sol dell’Avvenire, ultimo film di Nanni Moretti.
Ne hanno già scritto tutti, comprese le pagine di cinema per cui scrivo.
Ma, al di là di ciò, sono arrivato tardi anche per tanto altro. Ad esempio per il PCI, giacché era già stato sciolto allorché il sottoscritto si recò per la prima volta al voto.
Eppure di quella storia, così pregna di enormi slanci, ma non priva di errori, tantissimo ho letto (e pure scritto).
Dunque sono entrato in sala conscio che avrei sentito parlare di eventi che conoscevo, seppur non in prima persona.
E allora Nanni Moretti. Certo, dopo il deludentissimo Tre piani, un bel passo in avanti. Eppure ancora non il Moretti che ho molto amato in passato. E tuttavia, fa pensare. E parlare. Non proprio cosa che capiti sempre.
C’è molto in questa pellicola, ci sono il suo passato ed il suo presente. C’è l’utopia, ma anche la realtà. Ci sono il cinema, l’amore e la politica.
E la delusione. La delusione in molti campi, specie quella di un presente che pare aver cancellato quella speranza utopica che pareva inarrestabile.
C’è tanto, forse troppo, in questo film. Eppure si ride e ci si commuove pure.
C’è la fedeltà al partito, una specie di entità terza a cui disobbedire non si può. Eppure è quello stesso partito che, a partire dalle lotte che appoggia, porta miglioramenti concreti nella vita delle persone in carne ed ossa.
C’è un Moretti che omaggia il cinema, quello altrui, su tutti il Fellini di 8 e 1/2, e pure se stesso, in modo diretto o tramite i suoi attori.
C’è la storia, ma anche la storia controfattuale. L’Unità, le sezioni, il colloquio pre iscrizione, Togliatti e l’invasione sovietica in Ungheria, il vero motore del film.
C’è un amore statico ma difficile da interrompere, così come un mondo – del cinema ma verrebbe da dire reale – che corre troppo in fretta, senza pensare a cause e conseguenze di molte sue azioni.
Una cosa, però, manca a questa pellicola.
La banalità.
E, a ben pensarci, poco non è.