L’immagine l’ho trovata per caso. Questa fu la prima auto di mamma, forse il semi colore era un po’ più verdino, chissà. Era stata dismessa dal quotidiano sferragliare fra le mani del fattorino della ditta di famiglia e affidata a lei, neofita e svezzata dalle amorose cure della mitica Autoscuola Volta. Le venne dato il compito di “finirla” e lei ci si impegnava. Mamma era bella e in auto saliva sempre elegante e con un buon profumo che, però, nel chiuso dell’abitacolo si apprezzava per poco tempo, perché veniva quasi subito sovrastato dall’odore tipico della frizione che brucia – tanto che io per un bel po’ pensai fosse quello l’odore tipico delle automobili.
Poi, via; procedevamo, esitanti e saltellanti, verso allegre commissioni, presto arrivavano la sigaretta accesa e il dorso della mano elegantemente appoggiato al cristallo abbassato. La posa aggraziata mistificava però una espressione assai corrucciata, mamma era infatti concentratissima, perché non ci vedeva un cavolo di niente.
Io e Annalisa, di due anni più piccola, abitavamo casualmente il veicolo, non c’erano cinture di sicurezza, per lo più sedevamo davanti – e ho sempre pensato che essere sopravvissuto alla guida di mia madre avesse reso le successive barricate dei miei 16 anni in Via Festa del Perdono quasi un svago da filatelici. Comunque, via; a percorrere il confine tra i 50 e i 60 all’ora senza gran fretta, magari osando una puntata di una decina di km in centro a Milano (se non sapessi che papà la amava molto parlerei di istigazione al suicidio).
Ricordo una volta da Gusella, in San Babila, per comprare quei sandaletti coi buchi che certificavano, insieme agli odiati pantaloni all’inglese, la nostra militanza nelle fila della borghesia.