Lo teme la lumaca – ahi! smidollato gasteropode mangia-lattuga – e ne ha ben donde. In esso, l’incedere strisciante e molliccio s’arresta, si dissolve. Un sapido candore ingloba antenne, piedi, bava; e l’esserino viscido e tonto rattrappisce inesorabilmente (con sommo gaudio di carote e radicchio).
Lo brama il bollore nella pentola alta, quella per gl’italici spaghetti, o per il verdurame sfilato – ben più degna fine – allo stomaco della chiocciola, o della cugina ignuda.
Serve alle metafore popolari, per rendere intelligenti le zucche, gustosa la vita, inquiete le code. Ma qui e ora, quei suoi granelli albini, sono La Salvezza.
Le pietre chiare, intarsiate in quelle d’Istria, lastricano calli, corti, campielli e, soprattutto, le rive affacciate sui canali. Sono scivolose anche senza optional, quando il sole le spacca in quattro. E oggi nevica, a Venezia.
Stamane tirava la bora. Verde e flessa come gramigna, trattenevo a stento il cappello viola sulla fronte, mentre il soprabito turbinava in un’insolita danza Sufi.
Caro spazzino, adorabile spargitore di quel ben di Dio, non so come avrei fatto a raggiungere il battello, senza di te. Ah! Vuoi sapere cosa mi ha chiesto il marinaio, mentre la barca attraccava? «Sale?»