Non sapeva danzare, ma aveva forme generose che la moda dell’epoca avvolgeva in morbidi tessuti simili a pepli. A Lady Hamilton bastava atteggiare il corpo in pose plastiche che evocassero vagamente le statue dell’antichità, per incantare il Lord suo marito, gli amici del Lord suo marito, gli amanti e le amanti. Poi ci fu l’ammiraglio Nelson, che in guerra aveva perso un occhio, un braccio e due denti, ma non il cuore, e scoppiò la passione.
Così nacque il più classico dei triangoli in salsa anglosassone, all’ombra del Vesuvio, mentre, sullo sfondo, le vestigia pompeiane e la natura selvaggia del golfo blu continuavano ad alimentare l’ispirazione del gusto così ostinatamente britannico per le rovine e per il giardino artatamente scomposto.
Un altrove di affabulazione soggiogante, questo è da sempre Napoli per gli Inglesi, un “passaggio in India” al di qua di Suez; sospensione dell’affanno per i poeti in esilio come Oscar Wilde, che a Posillipo dissipò l’ultima breve stagione di felicità con l’amato per sempre, Alfred Douglas.
Un amore, quello degli inglesi per Napoli, pienamente ricambiato, in nome della comune tradizione dell’Arte del Teatro, giacché è risaputo che i migliori attori al mondo sono gli inglesi e i napoletani: i primi perché sanno fingere e i secondi perché non sanno farlo. E in nome dell’eleganza, giacché i napoletani di classe da sempre vestono all’inglese, ossia secondo uno stile che persino gli stessi inglesi ignorano. E volete, dunque, che gli inglesi non ci tengano a fare la differenza tra un italiano e un italiano napoletano?